Elio e le storie disattese
Per Pedro Almodóvar e Paul Thomas Anderson, Chiamami col tuo nome è senza dubbio alcuno uno se non il migliore film del 2017. E se lo dicono loro possiamo anche crederci. Ciononostante, chi si prende in carico l’onere di mettere sotto la lente d’ingrandimento critico un’opera cinematografica (e non solo), indipendentemente da colui che l’ha firmata, dovrebbe essere un po’ come San Tommaso. Ciò non significa, però, che non ci siamo voluti fidare dei due illustri colleghi di Luca Guadagnino e delle belle parole spese nei confronti dell’ultima pluridecorata fatica dietro la macchina da presa del cineasta siculo, che si vanno ad aggiungere ai numerosi consensi e riconoscimenti raccolti dalla pellicola nei mesi successi all’anteprima mondiale al Sundance Film Festival 2017, bensì abbiamo preferito vedere prima di credere. Nel frattempo, dal giorno della première, ossia dal 22 gennaio scorso, di acqua ne è passata davvero tanta sotto i ponti, tanta quanto l’ondata di pareri positivi che si è andata ampliando man mano che il film si faceva strada nel circuito festivaliero internazionale (dalla Berlinale a Toronto, passando per Londra, New York, San Sebastián e Rio de Janeiro) e che metteva in cassaforte tre nomination ai Golden Globe e quattro agli Oscar. Di conseguenza, la curiosità è cresciuta sempre di più.
Per quanto ci riguarda, ora che abbiamo avuto finalmente la possibilità di vedere il film, con l’uscita nelle sale nostrane a un anno esatto dal suo battesimo, anche noi possiamo inserirci nella scia di consensi, ma con qualche piccola riserva che ci ha portato a versare un bicchiere d’acqua sull’entusiasmo collettivo. Del resto, è quanto accade puntualmente quando si arriva ad una visione con al seguito un carico sostanzioso di aspettative. Dunque, ora possiamo affermare che Chiamami col tuo nome è senza dubbio uno dei migliori film della scorsa annata e probabilmente il migliore diretto da Guadagnino sino ad oggi. Ciò che raffredda leggermente il nostro giudizio in merito è legato principalmente a due componenti che nella pellicola del regista palermitano funzionano a fasi alterne: da una parte il motore del racconto ci mette qualche decina di minuti di troppo per andare a pieni giri, tant’è che la timeline finisce con l’accogliere digressioni nella parte iniziale che gonfieranno la durata sino ai 132’ complessivi; dall’altra il flusso emozionale sale e scende come una febbre, per poi esplodere e inghiottire lo spettatore di turno nel secondo meraviglioso atto, ossia quando il “quadro” drammaturgico e tematico viene finalmente svelato. Forse, anzi probabilmente, molti lettori non saranno d’accordo con le critiche che abbiamo rivolto all’opera, ma preferiamo essere sinceri al 100% con voi e con noi stessi perché, pur avendo gradito quanto visto, non ne siamo rimasti totalmente incantati.
Detto questo, Chiamami col tuo nome ha dimostrato di avere non poche frecce a disposizione da scagliare al cuore del fruitore. Gran parte di queste colpiscono il bersaglio e lasciano il segno, a cominciare dalle interpretazioni dei due co-protagonisti, ossia Timothée Chalamet e Armie Hammer, rispettivamente nei panni di Elio e Oliver: l’uno un precoce diciassettenne americano, che vive nella villa del XVII° secolo di famiglia passando il tempo a trascrivere e suonare musica classica, leggere, e flirtare con la sua amica Marzia; l’altro un affascinante studente statunitense di 24 anni, che il padre di Elio ospita per aiutarlo a completare la sua tesi di dottorato. Sono loro, il modo in cui i due attori riescono a fare propri dei personaggi che in altri casi, senza una scrittura attenta allo sviluppo delle one lines e alla cura dei piccoli/grandi particolari come questa, sarebbero stati il riflesso condizionato e l’espressione di una visione stereotipata. A metterli sulla giusta strada, a impedire che ciò avvenisse, ci ha pensato prima lo script di James Ivory, adattamento per il grande schermo dell’omonimo romanzo di André Aciman, poi l’approccio narrativo e registico di Guadagnino alla suddetta materia. In linea di massima si tratta del classico romanzo di formazione, di quelli che consegnano alla platea tormenti ed estasi di un adolescente che va incontro e si scontra con la propria identità e con quella natura che trova prima o poi il modo di manifestarsi alla luce del sole in una calda estate destinata a rimanere impressa nella memoria. Ciò che lo rende diverso è il modo in cui Guadagnino riesce a non fare scivolare il tutto nelle sabbie mobili del solito e dell’ovvio, del superfluo e del superficiale. E per farlo, prendendo in prestito quanto detto da Peter Debruge sulle pagine di Variety e che condividiamo in pieno, il film “fa avanzare il canone del cinema gay”, così come era stato a suo tempo, ma con altre traiettorie, per I segreti di Brokeback Mountain e Carol, ritraendo “una storia di primo amore che trascende le dinamiche della sua coppia omosessuale”. È questa la grande forza di un’opera che sa essere intensa e mai morbosa, sobria e delicata nel trattare con la giusta misura i contenuti ed elegante nella forma con cui questi vengono tradotti in immagini, suoni e parole, che parla prima di tutto d’amore, di crescita e del desiderio che sboccia sino a diventare ardente passione. Un’opera, questa, con la quale il regista siciliano riesce finalmente a farci dimenticare il suo Melissa P. e a chiudere un’ipotetica trilogia (con Io sono l’amore e A Bigger Splash) incentrata proprio sul desiderio nelle sue diverse sfumature e manifestazioni. Un’opera, questa, che per stessa ammissione di chi l’ha voluta strizza l’occhio ad Ai nostri amori di Maurice Pialat e rende omaggio ai “padri”, ossia ai quattro cineasti che lo hanno ispirato: Jean Renoir, Jacques Rivette, Éric Rohmer e Bernardo Bertolucci. In Chiamami col tuo nome c’è, infatti, un po’ di tutti loro e del loro cinema, tanto nel racconto, quanto nella costruzione dei personaggi, nella messa in quadro, nelle atmosfere e nello stile. Insomma, un DNA davvero di tutto rispetto.
Francesco Del Grosso