Tribunale senza appello
Ci sono film che nel tempo hanno di diritto acquisito lo status di cult e in quanto tali non andrebbero sfiorati nemmeno dal pensiero di volerci rimettere mano. Milano calibro 9 di Fernando Di Leo è uno di questi, diventato negli anni un riferimento per tutti coloro che hanno deciso di misurarsi con il noir e il poliziesco. Ma si sa le tentazioni possono essere anche più forti del buonsenso, soprattutto nei periodi in cui le idee originali scarseggiano e il passato rimane la sola fonte dalla quale attingere storie e personaggi, che per quanto riguarda la pellicola del 1972 sono entrati di fatto nell’immaginario popolare come ad esempio la famosa scena della go-go dancing della Nelly Bordon interpretata da Barbara Bouchet, omaggiata in Planet Terror di Robert Rodriguez.
Tutto però si era ridotto sino a questo momento a citazioni, tributi e omaggi più o meno diretti alla pellicola del cineasta pugliese, come del resto si è soliti fare nei confronti dei modelli o delle fonti d’ispirazione. Troppe volte, con la storia della Settima Arte che ne è suo e nostro malgrado testimone, i tentativi di ridare nuova vita a celebri film del passato o di successo sono naufragati per i motivi più disparati, tra cui proprio la difficoltà di ricostruire dalle fondamenta qualcosa che non ne aveva bisogno. Eppure c’è qualcuno che continua imperterrito a sfornare remake come se non ci fosse un domani, incapace di accettare che il cult di turno potesse restare per sempre un pezzo unico, da conservare e proteggere dalle sabbie e dal logorio del tempo.
Per fortuna non è il caso dell’ultima fatica dietro la macchina da presa di Toni D’Angelo, presentata fuori concorso al 38° Torino Film Festival, che con un grosso sospiro di sollievo non è andato a intaccare la matrice originale. Il suo Calibro 9, infatti, non è un remake, bensì un sequel che ha preso in prestito qualche personaggio e dei riferimenti al plot del film di Di Leo, per costruire l’architettura narrativa e drammaturgica di un action-movie che presenta nel proprio DNA i geni del crime, del poliziesco, del noir e del thriller. Tinte questa che il regista napoletano aveva già avuto modo di esplorare nelle prove precedenti sulla lunga e breve distanza, ma che qui convergono per alimentare un progetto che dopo Falchi ribadisce il suo interesse per il cinema di genere italiano degli anni Settanta.
Calibro 9 quindi non tenta di emulare, tantomeno di fotocopiare l’originale, ma punta più che altro a dare un seguito alla vicenda. Il plot del film del 1972 è ben noto alle cronache cinematografiche, così come noto è l’epilogo che vedeva la morte brutale di Ugo Piazza. Tuttavia D’Angelo e i compagni di scrittura (Luca Poldelmengo, Gianluca Curti e Marco Martani) hanno pensato saggiamente di costruire un racconto indipendente, che potesse in qualche modo vivere di vita propria e permettere al pubblico a digiuno di fruire dell’operazione senza intoppi. Racconto nel quale ovviamente trovano spazio riferimenti ad accadimenti e figure (Nelly e Rocco Musco in primis) presenti all’epoca, ma niente che potesse influire sulla visione. La trama di Calibro 9 vede infatti un bottino di cento milioni di euro sparire a seguito di una frode telematica. La principale sospettata è una cliente di Fernando Piazza, avvocato milanese figlio del già citato criminale Ugo, ucciso anni prima. La madre di Fernando, Nelly, ha lottato tutta la vita perché il destino del figlio fosse diverso da quello del padre, ma ora Fernando si trova in pericolo. La società alla quale sono stati sottratti i soldi non è altro che una copertura della ‘ndrangheta, intenzionata a vendicarsi e pronta a far scoppiare una guerra tra cosche.
Milano quindi resta, anche se la cancellazione dal titolo del sequel potrebbe fare pensare al contrario, ma l’azione si sposta in gran parte in terra calabra per scoprire se e come il protagonista riuscirà a tirarsi fuori dal fuoco incrociato di una faida sanguinaria. Così come restano i proiettili e gli agguati letali che lasciano al suolo cadaveri e che mettono a rischio l’incolumità del personaggio principale, qui interpretato da Marco Bocci. A cambiare semmai è la visione che si vuole restituire sullo schermo della criminalità e dei suoi esponenti, qui proiettati in una dimensione 2.0, nella quale i soldi sporchi, gli affari illeciti e le illegalità agiscono nei meandri della rete prima di deflagrare nella vita reale. Insomma, un processo inevitabile quanto funzionale di aggiornamento e adattamento, per consentire al racconto e a chi lo popola di attaccarsi ai giorni nostri.
Detto questo, Calibro 9 prende le giuste distanza dal cult di Di Leo, consapevole che diversamente si sarebbe scavato la fossa da solo. Fa suo lo spirito e alcuni stilemi del predecessore, ma non li replica fedelmente, tant’è che la componente poliziottesca prende più quota rispetto a quella crime, quest’ultima ampiamente ridimensionata nell’economia generale del film. Un film che ha il suo tallone d’Achille in una scrittura discontinua, che alterna momenti di lucidità ad altri dove i meccanismi a incastro di uno script costruito a scatole cinesi non funziono come dovrebbero. La raffica di cambi di fronte e delle posizioni dominanti, unita alla catena di voltafaccia e doppi/tripli giochi alla quale si assiste nel corso della timeline, infittisce e stratifica la ragnatela narrativa, ma la rende troppo meccanica e ingarbugliata. Al contrario, la componente cinetica, lo stile e la regia eclettica di D’Angelo, che già in Falchi e nel cortometraggio Ore 12 aveva dimostrato tutta la sua validità e ricchezza di soluzioni visive, consegna al pubblico un solido e adrenalinico action-movie dove si respira l’aria dell’artigiano nobile dei bei tempi che furono. Scene come l’inseguimento in auto con sparatoria e quella di corsa sui tetti, oppure l’imboscata nel porto di Anversa con conseguente epilogo balistico, ne sono la prova tangibile. E sono quelle che ci portiamo dietro della visione di Calibro 9.
Francesco Del Grosso