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The Oak Room

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VOTO: 6

Storie da morire

Impresa decisamente ardua, se non ti chiami Quentin Tarantino o qualcosa di simile, quella di realizzare un film di genere quasi esclusivamente incentrato sulla forza della parola. In The Oak Room – lungometraggio presentato nella nuova sezione Le stanze di Rol al Torino Film Festival 2020 – il regista canadese Cody Calahan si cimenta in un coraggioso tentativo, penalizzato però sia da una messa in scena piuttosto piatta che da una sceneggiatura capace di spargere inquietudine solo ad intermittenza.
L’idea forte alla base di The Oak Room ci sarebbe anche. Quella cioè di usare la sottile arte dello storytelling come arma psicologica preparatoria all’aggressione fisica. Una sorta di inconsueto thriller verbale, se ci concedete la definizione. Arricchito da una suggestiva costruzione a scatole cinesi, in cui ogni storia raccontata ne cela un’altra, peraltro arricchita di particolari sempre più significativi. Ed ognuna di queste narrazioni, almeno secondo le intenzioni degli autori, dovrebbe diventare foriera di una qualche verità, peculiare all’esplosione della violenza finale. Chiaro che il nudo plot, a questo punto, possa suonare in qualche modo pretestuoso. In una notte in cui imperversa una tempesta di neve un giovane studente si affaccia alla soglia di un locale all’orario di chiusura. Già conosce il proprietario, amico di suo padre. Pare abbia un debito nei confronti del barman. Un misterioso terzo uomo è in arrivo, nonostante la bufera. Il ragazzo, strano di suo, racconta al suo unico interlocutore una curiosa storia, nelle sue intenzioni per ricompensarlo dell’ammanco. Di cosa si tratti lo si scoprirà, solo in parte, nel drammatico epilogo.
Già abbastanza conosciuto, dagli appassionati del cinema di genere, per i due horror “epidemici” con considerevole spargimento di sangue Antisocial (2013) e Antisocial 2 (2015), Calahan appare una sorta di epigono di Eli Roth in salsa canadese, in cerca di un qualunque modo per esprimere la propria irresistibile attrazione cinefila nei confronti del cinema dell’orrore, del thriller e generi affini. Una sorta di creativo fai da te il quale, insieme ad una piccola factory personale, punta con The Oak Room (dal nome del fantomatico locale) ad un tangibile salto qualitativo, attraverso un’opera densa di atmosfera che suggerisca piuttosto che mostrare. Se Sir Alfred Hitchcock preferiva fornire più informazioni alla spettatore rispetto ai suoi personaggi per aumentare la suspense, Calahan adotta il procedimento contrario: il passato che lega i protagonisti viene svelato poco a poco e mai completamente. Tale modus operandi dovrebbe forzare il fruitore all’immaginazione di fatti e situazioni, ma in realtà finisce con il rappresentare il punto debole dell’intera operazione. Poiché le storie “che uccidono” non hanno sufficiente spessore, mancando di quel potere affabulatorio che sarebbe stato richiesto al fine di catturare, senza soverchie esitazioni, l’attenzione del pubblico. E The Oak Room, al tirar delle somme, si risolve in un prodotto cinematografica le cui buone intenzioni di partenza non si esprimono compiutamente. A funzionare è la gradualità con la quale si snodano le varie (troppe?) diramazioni narrative; ciò che risulta pericolosamente assente è un nucleo, un cuore pulsante che faccia da equilibratore quando si dovrebbe arrivare al termine di The Oak Room.
La “fabula”, intesa come modo di tramandare una tradizione orale, non è verità. Assume nuove angolazioni di lettura ogni qualvolta viene raccontata. Si ripete senza soluzione di continuità, rielaborata secondo cultura e costumi ad ogni latitudine. Una storia, se ben raccontata, può incantare oppure ferire a morte. The Oak Room, invece, si arena a sensibile distanza dall’oggetto di culto che forse sarebbe potuto diventare in altre mani.

Daniele De Angelis

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