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Un soupçon d’amour

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Un soupçon d'amour film
VOTO: 7

«Dormi e sogna anche l’impossibile»

Dopo Quasi Natale, vi parliamo dell’altro titolo scelto per la nuova sezione Fuori Concorso “Tracce di teatro” di TFF38. Accanto a un’opera interpretata da un’affiatata compagnia come Teatrodilina, troviamo un’altra firmata da un maestro della cinematografia francese Paul Vecchiali, Un soupçon d’amour, dedicandolo – non a caso – al grande regista tedesco Douglas Sirk. Il lungometraggio rievoca, infatti, il sapore del suo cinema (oltre a essere partito come regista teatrale), che ha segnato la Settima Arte col melò come Secondo amore, Lo specchio della vita e il celebre Come le foglie al vento.
In Un soupçon d’amour troviamo Geneviève Garland (una perfetta Marianne Basler) è una nota attrice teatrale di cui si avverte anche il desiderio di essere al centro dell’attenzione. L’incipit si apre proprio con le prove de l’‘Andromaca’ di Racine da mettere in scena con André (Jean-Philippe Puymartin), il marito e padre di suo figlio, il piccolo Gérome, un ragazzino di dodici anni malato che vive recluso in casa (Ferdinand Leclère). L’ossessione della donna per il figlio, la fragilità della sua tenuta psicologica, la relazione di Andrè con la migliore amica Isabelle (Fabienne Babe) – non più in essere, spingono Geneviève a lasciare lo spettacolo e a ritirarsi col figlio nella cittadina in cui è vissuta. La Blaser, sotto l’occhio-guida di Vecchiali, mostra una grande potenza espressiva anche nei piccoli gesti, in quei silenzi in cui cerca di celare la propria fragilità e in una decisione che certamente la fa soffrire – quella di ‘cedere’ il palcoscenico – ma che sente di dover assumere per tutelarsi.
Nella cittadina s’instaura una strana complicità fra madre e figlio, anche se tutti le chiedono di tornare su propri passi, anche perché è palese come la sua ‘sostituita’ in scena non sia alla sua altezza e tutto il pubblico aspetta, invece, di vedere lei.
«Il film è stato girato in nove giorni ma è stato preparato quattro mesi prima. Il direttore della fotografia è arrivato da Parigi due mesi prima delle riprese, ha filmato i set con un iPhone e una volta rientrato a Parigi, ha radunato i suoi tecnici, ha mostrato loro i set filmati e, con il découpage alla mano, ha deciso con loro le posizioni dei proiettori e i carrelli. Da parte mia, ho fatto due letture ‘piatte’ (cioè, senza intonazione): la prima per verificare che le parole dei dialoghi si adattassero alle attrici e agli attori; la seconda per indicare, come un direttore d’orchestra, dove nel testo c’erano accelerazioni, rallentamenti e pause. Questo metodo ha consentito di risparmiare molto tempo durante le riprese, permettendoci di finire con largo anticipo rispetto al previsto», ha dichiarato Vecchiali, svelando sì esigenze di produzione (la questione di girare in tempi brevi), ma anche un approccio molto teatrale se pensiamo anche solo alla lettura a tavolino con gli interpreti e alla preoccupazione che le parole pensate fossero credibili e da loro ben ‘masticabili’. Si crea, innegabilmente, pure una dimensione metateatrale quando ascoltiamo battute come:
André: «Sei troppo lontana dal personaggio»
Geneviève: «O troppo vicina»
Lo esplicitiamo, ma chi conosce bene i lavori di Vecchiali potrebbe immaginarlo, ‘Andromaca’ diventa metafora della vita di Geneviève, in un continuo gioco di piani tra realtà e finzione, sviluppato non solo tramite la macchina e il linguaggio cinematografici, ma anche attraverso il connubio palcoscenico-vita vera-schermo e il binomio presenza-assenza (soupçon ha il duplice significato di ‘sospetto’ e, quando seguito da ‘de’, di ‘pizzico’). La nostra protagonista esprime una ‘lucida follia’ che la aiuta a elaborare il dolore (le tinte thriller decidiamo di non svelarle con l’augurio che venga distribuito presto da noi), fino a vederlo in faccia; al contempo, sul piano drammaturgico, è il perno dietro cui ruota tutto: la finzione scenica, quella cinematografica, ma anche il ritratto femminile che Vecchiali desiderava tratteggiare.

Maria Lucia Tangorra

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