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Falchi

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VOTO: 7.5

La legge siamo noi!

Cinematograficamente (e non solo) parlando, Napoli è nella stragrande maggioranza dei casi stata e continua ad essere disegnata come una terra di nessuno, laddove giorno e notte tra i vicoli, le strade, le piazze, i quartieri e gli avamposti malfamati della malavita, si è consumata e si consuma quotidianamente una vera e propria guerra intestina fra “famiglie” e clan rivali, ma anche quella fra il bene e il male, fra la legge e la criminalità più o meno organizzata. Un ritratto, questo, che il capoluogo campano difficilmente riuscirà a scrollarsi di dosso, a maggior ragione ora che le pagine di “Gomorra” e delle sue trasposizioni per il piccolo e grande schermo hanno fatto breccia nell’immaginario comune. Il successo nazionale e internazionale da queste ottenuto non ha fatto altro che alimentare tale immagine, quanto basta per imprimerla a caratteri cubitali nella mente dello spettatore di ieri, di oggi e del futuro. Di conseguenza, indipendentemente da quanto il suddetto ritratto possa essere più o meno veritiero e corrispondente alla realtà, l’immagine che il cinema nostrano sta restituendo della città partenopea e delle sue zone limitrofe è ormai quello di un autentico Far West, dove la legge e la giustizia sono messe perennemente in discussione, per non dire schiacciate. Ma si tratta di un discorso vasto e delicato, lungo e complesso da affrontare in questa sede, che poi non è nemmeno quella predisposta e adeguata a farlo. Una cosa, però, vogliamo e possiamo dirla: nel prolifico filone dei romanzi criminali ambientati in terra partenopea prodotti nell’ultimo decennio, un film come Falchi riesce quantomeno a prendere le distanze da una certa visione che è diventata a tutti gli effetti stereotipata e drammaturgicamente preconfezionata.
L’onestà intellettuale che caratterizza l’opera terza di Toni D’Angelo e il suo approccio alla materia ha permesso allo script e alla sua trasposizione di non abbracciare in tutto e per tutto tale visione. Quest’ultima non ha il potere – e forse nemmeno è nelle sue intenzioni averlo – di smontare e proporre una visione alternativa di Napoli. Lo scopo è un altro, ossia quello di raccontare una storia di resistenza, quella di rappresentanti delle forze dell’ordine che tentano di portare la legalità lì dove viene violata; e quando è possibile di ristabilire l’ordine nel caos. Ma per farlo sono costretti a sporcarsi le mani, a operare sulla sottile soglia della legalità stessa, confondendosi con la massa e con la criminalità che la inquina, utilizzando metodi non sempre rispettosi delle regole. Un giorno qualcuno disse: “per combattere il nemico lo devi conoscere alla perfezione”. Ed è quanto sono costretti a fare i protagonisti di Falchi per sopravvivere e per svolgere il proprio lavoro fra le strade e i vicoli della città, arrivando a bordo di motociclette in quelle zone dimenticate da Dio, dove le volanti non riescono ad entrare.
L’ultima fatica dietro la macchina da presa sulla lunga distanza di D’Angelo dopo Una notte e L’innocenza di Clara, nelle sale con Kock Media a partire dal 2 marzo, ci catapulta nel cuore di una città dalle mille contraddizioni al seguito di Peppe e Francesco, due falchi, ossia poliziotti appartenenti alla sezione speciale della Squadra Mobile di Napoli. In sella allo loro moto, portano la legge tra i vicoli più malfamati. La loro vita, già ricca di tensione, viene sconvolta da una tragedia personale. In preda allo sconforto e assetati di vendetta, ingaggeranno una lotta senza esclusioni di colpi contro una potentissima e spietata organizzazione criminale cinese.
La lettura della sinossi e la successiva fruizione della pellicola mettono in risalto due aspetti molto importanti ai fini analitici, che una volta condivisi non possono fare altro che confermare e certificare la qualità dell’opera. Entrambi gli elementi hanno a che vedere con l’onestà intellettuale alla quale si faceva riferimento in precedenza. Da una parte, ci troviamo al cospetto di un disegno tridimensionale dei personaggi che non va in una sola direzione, ma ci mostra il bianco e nero, il rovescio della medaglia di uomini scissi. Dunque, non si tratta di eroi senza macchia, ma figure leggendarie e, allo stesso tempo, ambigue, visto il loro modo, molto spesso non convenzionale, di contrastare il crimine. In tal senso, l’incipit di Falchi mette subito le cose in chiaro. L’autore rende benissimo questa scissione e questa doppia anima, portando sullo schermo due personaggi pronti ad agire e a sfidare la morte pur di difendere quello in cui credono, ma anche con fragilità, paure, fantasmi e scheletri nell’armadio con i quali convivere giorno dopo giorno. Peppe e Francesco, infatti, sono uomini tormentati da un passato che torna a bussare e che li destabilizza (e tornano alla mente i protagonisti dei due capitoli di Tropa d’elite), impedendogli di imboccare la strada della redenzione. Lo spessore e la solidità della performance della coppia formata da Riondino e Cerlino fa in modo che sullo schermo prendano forma e sostanza due “angeli” caduti in terra, dalle ali sporche di fango.
Il secondo aspetto emerso dalla visione del film è il riferimento e l’utilizzo del cinema di genere e del suo linguaggio. D’Angelo continua il suo percorso di esplorazione iniziato con Una notte, mescolando questa volta in maniera impeccabile echi del poliziottesco, del noir metropolitano e dell’action hongkonghese (aveva fatto le prove generale nel cortometraggio da lui diretto dal titolo 12 ore), con più di una strizzatina d’occhio alla filmografia di Johnnie To. A suggerircelo in primis sono l’ambientazione e i villain di turno, ma anche l’estetica e lo stile cinetico che caratterizzano la messa in quadro. Il regista napoletano mette al servizio della confezione e della scrittura la maturità acquisita sul campo, offrendo alla platea una serie di soluzioni visive degne di nota (il piano sequenza sotto la pioggia nella scena dell’uscita dal treno, la soggettiva del cane, la sparatoria finale e l’uso del drone), funzionali al plot e mai fini a se stesse.

Francesco Del Grosso

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