Una dura verità
Non c’è alcun dubbio sul fatto che il cinema islandese sta vivendo uno dei suoi trienni più fecondi e memorabili. Sulla scia di film pluripremiati come Rams, Virgin Mountain, Sparrows, Heartstone e La donna elettrica, continuano ad affacciarsi nelle principali manifestazioni di tutto il mondo opere che ciascuna a proprio modo ha e sta lasciando il segno. Tra le ultime va sicuramente citata A White, White Day, opera seconda di Hlynur Pálmason, alla quale è toccato il compito di chiudere il concorso della 37esima edizione del Torino Film Festival.
Dopo la fortunata anteprima alla Semaine de la Critique di Cannes 2019 e una serie di altre apparizioni in vetrine prestigiose del circuito internazionale come Toronto, Montréal e Zurigo, la pellicola del cineasta islandese ha fatto tappa alla kermesse piemontese. Ed è lì che abbiamo potuto recuperare uno dei titoli più attesi della competizione, firmata dall’autore del pluripremiato Winter Brothers.
Pálmason ci porta nuovamente nella sua fredda, glaciale e incontaminata terra natia per raccontare ancora una storia di travagliati legami affettivi. Così dopo l’anticonvenzionale cronaca di un’ostilità tra due fratelli, è la volta di una storia di lutto, mancata elaborazione, vendetta e amore incondizionato, bruscamente interrotto e che forse era in via di dissoluzione. Per raccontarla, l’autore ci porta in una remota cittadina islandese al seguito di un commissario di polizia in congedo che sospetta che un uomo del posto abbia avuto una relazione con sua moglie, recentemente deceduta in un incidente stradale. La sua ricerca della verità diventa ossessione. Si intensifica e inevitabilmente porta a mettere in pericolo se stesso e i suoi cari. Il tutto mentre le condizioni meteorologiche mettono in ginocchio la località, isolandola dal resto del Paese.
A White, White Day è l’equivalente di una pentola a pressione destinata a implodere quando il protagonista raggiunge il punto ebollizione. La timeline ci mostra il percorso che porta il coperchio a saltare quando l’uomo si trova a fare i conti con l’amante della defunta consorte. Ma è un percorso graduale, segnato da un cammino doloroso di scoperta e presa di coscienza che avrà un’improvvisa accelerazione negli ultimi venti minuti. Questi consegnano allo spettatore quel ventaglio di emozioni forti che prima del suddetto twist erano rimaste volutamente in ghiacciaia. Dallo scatto di ira nella stanza dello psicoterapeuta che tiene in cura il protagonista sino all’aggressione sulla jeep, nel mezzo delle quali ci sono un corpo a corpo nella stazione di polizia e un face to face notturno sulla scogliera, il film cambia totalmente fisionomia e tono trasformandosi un’escalation di violenza.
Proprio questo cambio di rotta risveglia dall’apparente letargo una timeline sotto la quale, in realtà, sta montando qualcosa di più forte. Il pubblico dovrà solo avere la pazienza di attendere un po’ più del dovuto il suddetto innesco. Da quel momento il racconto prenderà un altro ritmo e dalle parole si passerà ai fatti, con Ingvar Sigurdsson (candidato per questo ruolo agli European Film Awards 2019 come miglior attore) nei panni del protagonista che si caricherà sulle spalle tutta l’opera. Con molta probabilità non porterà a casa l’ambito riconoscimento, ma la nomination agli Oscar europei è strameritata.
Francesco Del Grosso