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West of the Jordan River

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VOTO: 7.5

Che ognuno faccia sentire la propria voce

La guerra senza fine tra arabi e israeliani è un tema su cui più si discute, più si continuano a scoprire nuove informazioni, nuove realtà. Stesso discorso vale per il campo della Settima Arte dove tra documentari (l’ultimo in merito è l’intenso Ps. Jerusalem della regista Danae Elon, giusto per fare un esempio) e lungometraggi a soggetto (tra le ultime produzioni ricordiamo La casa delle estati lontane, di Shirel Amitay) di cose a riguardo se ne sono dette e di storie se ne sono raccontate a bizzeffe. Eppure, c’è ancora tanto e tanto da sapere. Della stessa idea è, a quanto pare, anche il celebre cineasta israeliano Amos Gitai, che dopo molti anni fa ritorno nei territori militarmente occupati per raccontarci tante nuove realtà. Da questo progetto ha preso vita il documentario West of the Jordan River, presentato alla Quinzaine des Réalisateurs durante la 70° edizione del Festival di Cannes.
Ricollegandosi inizialmente all’ultimo documentario del regista (Rabin, the Last Day, presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2015), è proprio dalla figura dell’ex Primo Ministro israeliano – Yitzhak Rabin, appunto – e dal suo progetto di mediazione che prende il via West of the Jordan River. Fu lo stesso Gitai, a suo tempo, ad intervistare Rabin. Molti anni dopo l’assassinio dello stesso, però, la situazione non appare migliorata, sebbene da parte della popolazione il desiderio di pace sia forte come non mai. Ed ecco che adulti, bambini, membri di associazioni che prevedono la convivenza tra arabi ed israeliani fanno sentire le loro voci alla telecamera, raccontando ognuno la propria, personale realtà ed alternandosi, di quando in quando, ad analisi di giornalisti e storici.
Ed il cinema, in tutto ciò, che fa? Di certo non è un semplice spettatore, o meglio un testimone silente. Il cinema, in questo ultimo lavoro di Gitai diviene di diritto un vero e proprio attore, presente com’è in ogni situazione mostrataci. Ed ecco che non solo il regista stesso, ma anche macchine da presa, microfoni ed operatori fanno il loro ingresso in campo, quasi a voler ricordare l’importanza stessa della Settima Arte, in qualità di ulteriore strumento di informazione, denuncia ed esortazione ad agire.
Se si pensa al penultimo lavoro di Gitai – Rabin, the Last Day, appunto – di certo West of the Jordan River per quanto riguarda la messa in scena stessa può essere – erroneamente – classificata come un’opera di gran lunga più modesta rispetto all’imponente documentario presentato a Venezia, in cui anche il live action aveva avuto il proprio spazio. Eppure, questa ultima fatica del cineasta israeliano modesta non lo è affatto. Ciò che abbiamo davanti agli occhi è un intenso film corale, molto personale e comunicativamente efficace che non esita a mostrarci la cruda realtà, ma che, tuttavia, non cela nemmeno una certa speranza ed un certo ottimismo per quanto riguarda un prossimo futuro. Sono la prova di ciò l’immagine di una giostra e di alcuni giocatori di backgammon in chiusura del film, che stanno a suggerire un contesto sereno e pacifico. Eccessivamente ingenuo? Fin troppo ottimista? Più che altro, decisamente speranzoso, West of the Jordan River. Speranzoso e tanto, tanto efficace. Anche stavolta, dunque, la Settima Arte ha saputo colpire nel segno.

Marina Pavido

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