Occhio per occhio
La normalità. La modernità. La quotidianità. Per il cineasta greco Yorgos Lanthimos, uno dei maggiori talenti in circolazione, non sono altro che il brodo di coltura ove si sviluppa un malessere profondo, destinato a manifestarsi nel suo cinema attraverso gli strumenti del paradosso, dell’iperrealismo, del simbolo. Sin dai primi dialoghi sembra di assistere a un comunissimo intreccio, a qualche sonnacchiosa tranche de vie, ma prima o poi saranno il disagio e le più sottili note stranianti a prendere il sopravvento, facendo deragliare la realtà appena descritta fino a ricomporla in una morbosa e decadente parafrasi.
Certo, in quel piccolo capolavoro che è The Lobster, Premio della Giuria a Cannes nel 2015, tale strategia narrativa aveva assunto coloriture ancora più immaginifiche, al punto di prefigurare un mondo in cui solitudine e ferreo rispetto delle convenzioni sociali potessero tranquillamente porsi quale premessa di grottesche metamorfosi, sentimenti alla deriva e crudeli riti di passaggio.
Un po’ come nel precedente Alps (2011), un film come Il sacrificio del cervo sacro (accolto a Cannes 2017 nuovamente con entusiasmo, stante il premio per la Miglior Sceneggiatura) proietta tensioni analoghe su una messa in scena apparentemente più ordinaria, realistica, pronta però a farsi fagocitare da spinte altrettanto destabilizzanti e sulfuree. La regia geometrica e minimalista di Yorgos Lanthimos ci introduce innanzitutto in una sobria cornice ospedaliera, dove un affermato chirurgo (ossia il Dottor Steven Murphy, interpretato da Colin Farrell con quel mood corrucciato e pensieroso a lui decisamente congeniale) pare districarsi bene tra l’amicizia con un navigato collega e quei rapporti familiari tendenzialmente distesi, nella norma: nonostante la freddezza di certi quadretti domestici, sia i due figli che la deliziosa mogliettina Anna (una Nicole Kidman fascinosa e tremendamente brava come suo solito, spinta qui a lavorare sul versante più algido del proprio personaggio) appaiono perfettamente integrati nell’esistenza del protagonista. Eppure, c’è un’ombra oscura che incombe su di loro. Il Dottor Murphy si vede spesso con Martin, adolescente impersonato dal talento irlandese Barry Keoghan (Mammal, ’71, Dunkirk), il cui atteggiamento appare da subito ambiguo come la natura dei loro incontri. Si potrebbe immaginare qualsiasi cosa. Una escalation drammaturgica inusuale fa sì però che a prendere forma sia una spiegazione totalmente irrazionale, dai contorni metafisici, per cui l’enigmatico rapporto tra il Dottore e il ragazzo verrà ben presto indirizzato verso l’iperbolica trasformazione di un torto pregresso e del conseguente senso di colpa, in un autentico gioco al massacro che coinvolgerà l’intera famiglia. Nei termini, però, di una riedizione dell’arcaico “occhio per occhio, dente per dente”, riaffermato non tramite criteri realistici, ma in una spiazzante cornice misterica.
Torna quindi il rito, nella fattispecie un sacrificio, in un cinema disturbante, ansiogeno e lucidamente pessimista – almeno per quanto riguarda l’essenza del contatto umano – come quello di Yorgos Lanthimos, abile qui nell’infarcire i dialoghi della famiglia in crisi di uscite patetiche e grottesche, preludio della resa definitiva. I corpi del figlio e della figlia, con il loro progressivo disfacimento, sembrano quasi accompagnare l’analoga degenerazione interiore. E così un robusto tessuto simbolico finisce per intrecciarsi naturalmente, pur con qualche piccolo intoppo o strappo narrativo, con una forma filmica che fagocita anche le linee guida del thriller, qui ampiamente stravolte. Certe provocazioni affini tanto alla poetica di Lars von Trier che a quella di Haneke si innestano quindi in una architettura diegetica più articolata, complessa, che anche della colonna sonora sa fare buon uso, affidando a sonorità distorte e ad archi striduli i passaggi del racconto in cui la così precaria dimensione del quotidiano comincia a scricchiolare in modo decisamente sinistro.
Stefano Coccia