Quando la città racconta
La statura autoriale di Todd Haynes è ormai ben nota e universalmente riconosciuta. Meno evidente potrebbe essere magari la sua natura di sperimentatore, talvolta nascosta dietro un’ingannevole patina di classicismo formale, come ad esempio nello straordinario Lontano dal paradiso (2002) o nella bellissima miniserie televisiva Mildred Pierce (2011).
Ne La stanza delle meraviglie – film che approda nelle sale italiana con un anno tondo di ritardo, dopo la presentazione in Concorso al Festival di Cannes 2017 – troviamo infatti la spericolata fusione di due dimensioni temporali distanziate da mezzo secolo (1927 e 1977) a livello narrativo, con protagonisti due adolescenti entrambi segnati da una menomazione fisica nonché alla ricerca di un genitore nella sterminata New York. Prendendo così spunto dal testo letterario di Brian Selznick – anche autore della sceneggiatura e specialista di epifanie adolescenziali come nel romanzo da cui è stato tratto Hugo Cabret (2011) di Martin Scorsese – Haynes gira un ambizioso lungometraggio stratificato su più livelli. Il primo è per l’appunto il nucleo narrativo basico, che prevede il classico racconto di formazione temporalmente bipartito sino a quando le vicende dei due ragazzi non confluiranno nel vibrante finale. Il secondo può essere interpretato come un’autentica ode alla Grande Mela, al crogiolo di Storia conosciuta e piccole memorie che compongono il background di una metropoli qui riconosciuta come il centro di un mondo in costante cambiamento. La terza, forse la più importante, riguarda invece l’importanza della comunicazione tra individui. Come già premesso sia Rose (interpretata da ragazzina dall’ottima Millicent Simmonds, vera sordomuta) che Ben (un bravo anche ad Oakes Fegley) hanno serie difficoltà nel comprendere le parole altrui. E ciò li pone dietro una barriera d’isolamento verso il resto della società. Ecco dunque che La stanza delle meraviglie muta ancora una volta pelle, trasformandosi in una sorta di apologo sulla necessità della connessione tra individui come unica possibile fonte di armonia tra gli stessi. Sembra una favola utopica, ma La stanza delle meraviglie possiede anche un chiaro sottotesto dal significato squisitamente socio-politico, specie in questi tempi nei quali una mano tesa nei confronti dello “straniero” è quasi definita reato per le leggi vigenti in paesi che si reputano altamente democratici.
In ultima istanza, ne La stanza delle meraviglie, è palese una riflessione sul mezzo cinematografico inteso esso stesso come mezzo culturale da utilizzare come indispensabile strumento per migliorare il proprio bagaglio di conoscenza. Haynes, relativamente alla parte ambientata nel passato più remoto, sposando il punto di vista di Rose gira in pratica un film muto, in bianco e nero nonché privo di dialoghi, peraltro musicato alla vecchia maniera e con esplicito invito ad effettuare un percorso a ritroso sul filo della memoria (non solo) cinematografica. Della serie: noi eravamo lì ed ora siamo qui. In mezzo c’è la nostra vita. In fondo si tratta del messaggio ultimo di un’opera anche troppo densa, piena di grazia e poesia soffusa, imperfetta nel suo essere talvolta didascalica e con qualche tempo morto di troppo nell’evoluzione narrativa; eppure traboccante emozione specie in un’ultima parte capace di ridisegnare, per mezzo dei modellini esposti in un museo (luogo custode di memorie per eccellenza: il titolo originale del film, Wonderstruck, cioè “armadi meravigliosi”, si riferisce proprio a questo) newyorchese, l’intera mappatura di una travagliata storia di famiglia. Basterebbe solo quest’ultimo frangente a rendere La stanza delle meraviglie una visione imprescindibile al pari di ogni film diretto da Todd Haynes. Un’opera insolita per insite caratteristiche e perciò riservata ad adulti e bambini, per una volta uniti sotto il medesimo, simbolico, abbraccio.
Daniele De Angelis