Un dono indispensabile
“Nulla è tanto dolce quanto la propria patria e famiglia, per quanto uno abbia in terre strane e lontane la magione più opulenta”, affermava, a suo tempo, Omero. E tale citazione, nel nostro caso, perfettamente si addice al pensiero di Danae Elon, regista dell’intimista e toccante documentario P.S. Jerusalem, presentato alla nona edizione del Visioni Fuori Raccordo – Rome Documentary Fest, all’interno della sezione Visioni Internazionali_HomeLANDS.
Figlia dell’intellettuale israeliano Amos Elon, la regista – emigrata giovanissima negli Stati Uniti – ha promesso al padre – in seguito alla richiesta fattale da lui in punto di morte – che non sarebbe mai più tornata a Gerusalemme, sua città natale, data l’attuale situazione politica. Eppure, dopo molti anni di esilio, la nostalgia per la propria terra si è fatta sempre più forte, al punto di voler tornare, insieme alla famiglia, con la speranza di rivivere i posti che l’hanno resa felice da bambina. Tali luoghi, però, non sono ormai più gli stessi di molti anni fa, cosa di cui la regista stessa si accorgerà presto a proprie spese.
Un bambino che, ancora assonnato, guarda con meraviglia fuori dalla finestra di camera sua e gioisce del fatto che abbia nevicato durante la notte. Il fratellino, che dorme nel letto dei genitori, viene svegliato da lui con la bella notizia. In questo modo si apre il documentario della Elon: seguendo passo passo i suoi figli e raccontandoci, attraverso i loro occhi di bambini, la guerra senza fine dello Stato di Israele e le sue conseguenze sulla vita di chi abita in quelle terre. Si parte da una piccola realtà, dunque, per parlare di qualcosa che riguarda il mondo intero e che, per questo motivo, ma anche per la straordinaria capacità narrativa della regista stessa, riesce a coinvolgere lo spettatore fin dai primi minuti.
Innovativo dal punto di vista narrativo e per nulla retorico, questo documentario della Elon abbraccia la storia di tre generazioni riuscendo a mettere in scena un conflitto politico, ma anche una sorta di personale saga famigliare. E lo fa con una messa in scena apparentemente semplice, con un uso prevalente di camera a spalla, con riprese che potrebbero essere considerate quasi amatoriali e con la presenza costante della voce fuori campo della regista stessa, la quale, mai ridondante, di fianco alle vicende dei suoi bambini, pone su di un altro livello il suo dramma personale, la mancata promessa a suo padre, la sua crisi famigliare ed il rapporto con suo marito, il quale non è mai riuscito ad ambientarsi a Gerusalemme.
Ed è così che ci vengono mostrati i bambini che vanno a scuola, che giocano con i propri amici (molti dei quali arabi, dal momento che la donna ha deciso di mandare i propri figli nell’unica scuola per arabi ed israeliani presente a Gerusalemme), ma anche che sono pronti a scappare ogniqualvolta la sirena annunci un imminente bombardamento. Immagini di vita quotidiane narrate attraverso lo sguardo amorevole di una mamma, che, tuttavia, riesce a mantenere quel giusto distacco necessario alla messa in scena.
Al di là dei contenuti e della realizzazione in sé, però, ciò che rende questo documentario della Elon – senza voler assolutamente esagerare – indimenticabile è proprio la scena finale, in cui vediamo uno dei figli della regista che scoppia in lacrime nel momento in cui, accingendosi insieme alla famiglia a lasciare Gerusalemme, deve salutare per sempre il suo migliore amico, appartenente alla fazione araba. I loro pianti disperati e strazianti ed il loro abbraccio – proprio perché autentici – difficilmente lasceranno indifferenti. Praticamente impossibile immaginare qualcosa che possa trasmettere una speranza ancora maggiore di quella che ci viene regalata in questi preziosi momenti. Ed ecco che il cinema, il cinema del reale nello specifico, ancora una volta ci fa uno dei doni più necessari, di cui non ne avremo mai abbastanza. Non c’è null’altro da aggiungere: è questa la vera magia della Settima Arte.
Marina Pavido