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Waiting for the Barbarians

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VOTO: 7

Una storia universale

Se negli ultimi anni siamo stati piacevolmente sorpresi da lungometraggi come El abrazo de la serpiente (2015) o Oro verde (2018), la notizia della presenza in corsa per il tanto ambito Leone d’Oro alla 76° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia del cineasta colombiano Ciro Guerra con il suo Waiting for the Barbarians (trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di J. M. Coetzee) ha indubbiamente sollevato parecchie aspettative sia da parte di pubblico che di critica.
Prima produzione dal respiro internazionale del regista, Waiting for the Barbarians mette in scena le vicende di un magistrato, amministratore di un avamposto di frontiera ai confini di un impero senza nome, il quale, aspettando tranquillamente la pensione, aspetta di cedere il proprio incarico al ben più crudele colonnello Joll, solito effettuare durissimi interrogatori agli indigeni del posto e a torturare gli stessi qualora intendessero ribellarsi. Le cose cambieranno nel momento in cui il maresciallo farà la conoscenza di una donna barbara precedentemente torturata dai suoi stessi soldati.
Ambientato in un luogo volutamente senza tempo e senza nome, il presente lungometraggio mira a mettere in scena una storia universale pericolosamente attuale. Operazione, la presente, indubbiamente impegnativa, che ha visto Guerra rapportarsi per la prima volta a un cast di livello internazionale (di cui fanno parte Marc Rylance, Johnny Depp e Robert Pattinson) e, soprattutto, a dettami produttivi tipici delle grandi major hollywoodiane. E, di fatto, se si ha già avuto modo di visionare i precedenti lavori dell’autore, non si può non notare come il presente si discosti sostanzialmente da quanto realizzato fino a oggi, assumendo un carattere maggiormente tendente al mainstream e snaturando, dunque, la poetica del regista stesso.
Ed è proprio questo, forse, il fattore principale che ha fatto sì che un prodotto come Waiting for the Barbarians risultasse a tratti eccessivamente piatto e ridondante, malgrado l’indubbio appeal delle situazioni messe in scena. Eppure, di fatto, la struttura di base con cui inizialmente il tutto è stato concepito, è indubbiamente interessante: suddiviso in quattro capitoli – ognuno indicante una diversa stagione dell’anno – l’andamento narrativo sta perfettamente a rappresentare la ciclicità della vita e il ripetersi della storia. E la tal cosa – data anche l’intenzione di ambientare il tutto in un tempo e in uno spazio indefiniti – risulta una soluzione ideale.
Peccato, dunque, che ogni situazione avrebbe potuto essere sviluppata meglio. Stesso discorso vale per i protagonisti, tutti con un indubbio potenziale, ma che, di fatto, non sempre godono di una scrittura che li valorizzi a 360°. Eppure, malgrado le evidenti pecche, non si può non riconoscere a un lavoro come Waiting for the Barbarians un’ottima regia, con tanto di sapiente gestione degli spazi e interessanti ricostruzioni storiche. Segno, di fatto, che – anche se soffocato da rigidi dettami produttivi – il talento di Ciro Guerra si fa sentire sempre vivo e pulsante.

Marina Pavido

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