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Oro verde

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VOTO: 9

I cinque canti dell’inferno

Di scalate al potere combinate con epopee ambientate nel mondo del narcotraffico sul piccolo e grande schermo ne abbiamo viste e ne vedremo ancora molte, con la serialità che nello specifico sta alimentando a getto continuo l’argomento in questione. Il successo planetario dei vari Gomorra e Narcos altro non è che il riflesso condizionato di un modus operandi che dal cinema si è trasferito alla televisione e che rappresenta solo la punta di un iceberg che ha precedenti illustri che non stiamo qui ad elencare per non tediarvi, molti dei quali però hanno titoli scritti a caratteri cubitali nella storia della Settima Arte. Di conseguenza, il rischio di imbattersi in reiterazioni e in copie conformi è alto e lo sta diventando sempre più. Ne deriva un certo grado di pregiudizio nei confronti di tutto ciò che di audiovisivo ci viene proposto in materia, con un interesse che sta via via – almeno per quanto ci riguarda – andando a scemare. Questo per dire che l’attesa nei confronti di un film come Oro verde – C’era una volta in Colombia (titolo internazionale Bird of Passage), nonostante le voci positive giunte alle nostre orecchie da Cannes 2018 e il fatto che alla regia ci fosse la premiata ditta formata da Cristina Gallego e Ciro Guerra potesse in qualche modo certificarne la qualità, non è stata di quelle spasmodiche ma decisamente contenute e nella media.

Accade però che la visione sul grande schermo, come è giusto che sia, arrivi puntualmente a spazzare via quel muro di scetticismo eretto per evitare delusioni cocenti, regalandoti quel film straordinariamente potente nella forma quanto nel contenuto che lascia un segno tangibile al suo passaggio. Ed è quanto accaduto a noi e probabilmente a gran parte dei presenti al Noir in Festival 2018, laddove la pellicola della coppia sudamericana è stata presentata in concorso nel palinsesto comasco della kermesse lombarda, in attesa di vederla approdare nei prossimi mesi nelle sale italiane con Academy Two.

In Bird of Passage assistiamo alle origini del traffico di droga in Colombia attraverso la storia epica di una famiglia indigena Wayuu che, nel corso di tre decenni, abbandona progressivamente le attività tradizionali per dedicarsi al nuovo, lucrativo commercio. La matrona Úrsula, l’audace Raphayet e la bella Zaida scoprono presto i vantaggi della ricchezza e del potere, ma anche i risvolti tragici che ne derivano. Avidità e senso dell’onore scateneranno una guerra fratricida che metterà a repentaglio le loro vite, la loro cultura e i loro riti ancestrali. Sinossi alla mano vi starete chiedendo cosa c’è nel suddetto film e nella storia che racconta, ma anche nei personaggi che la popolano, di così nuovo e stravolgente da averci sorpreso al punto tale da entusiasmarci sino a questo punto. A dire la verità nulla che non si possa rintracciare già nelle poche righe di trama che accompagnano il film. E quel qualcosa la si può andare a rintracciare nella vicenda stessa che, riavvolgendo le lancette dell’orologio sino all’epoca nella quale è ambientata, ci catapulta in quello che è stata battezzata la “Bonanza Marimbera”, ossia il periodo di fiorente traffico di marijuana tra la Colombia e gli Stati Uniti, negli anni Settanta e Ottanta, che ha coinvolto in particolare la zona del deserto Guajra, dove Bird of Passage è stato girato. Un periodo, questo, del quale la televisione e il cinema sino ad oggi non se ne erano ancora occupati, nonostante fosse stato un autentico crocevia di loschi affari e di vite spezzate.

Tuttavia la vera e grande forza del film non risiede solo nell’avere scovato una pagina di sangue che non era ancora stata raccontata, bensì il modo in cui i due cineasti colombiani lo hanno fatto, ossia prendendo la parabola classica del romanzo criminale, qui trasferita in cinque canti che ne accompagnano l’escalation dalla rapida ascesa alla rovinosa caduta dopo le faide e le fratture interne, per poi metterla al servizio di un’opera che sotto la mera superficie si è fatta portatrice sana di temi dal peso specifico non indifferente, a cominciare dall’importanza della parola data da rispettare assolutamente a quella del sogno e del valore intrinseco della vita. Importanza che nella storia di Bird of Passage si estende anche al ruolo centrale della donna in una società matriarcale e ad una narrazione visuale degli usi e costumi ancestrali dell’area geografica in questione che dona al film uno sguardo antropologico.

Ciò che si materializza è il racconto per immagini e parole, tra lirismo e folate di improvvisa violenza, del processo quasi trentennale di autodistruzione e disfacimento di un Impero. Il tutto attraverso una sorta di Heimat familiare calato negli inferi del narcotraffico, che trova il proprio linguaggio mescolando con grandissimo equilibrio ed efficacia i codici dei generi chiamati in causa (dal noir al gangster movie, passando per il western) e una serie di suggestioni (tra cui la tragedia greca). Al quale si aggiunge una performance corale di altissima qualità, resa possibile da un nutrito parco di attori e non capaci singolarmente (su tutti una Carmiña Martínez in stato di grazia nei panni della matriarca Úrsula) e in gruppo di dare vita a personaggi disegnati su una molteplicità di livelli e di sfumature.

Francesco Del Grosso

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