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Il processo ai Chicago 7

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VOTO: 8

America ieri, America oggi

Stati Uniti. Giocando un po’ con il significato delle parole e seguendo un procedimento tanto caro ad Aaron Sorkin. Uniti non lo sono mai Stati. Ora meno che mai, dai tempi remoti della Guerra di Secessione. Ed è grande quel cinema che riesce a mettere in scena il passato facendo riverberare le sue ombre nel presente. Il processo ai Chicago 7, ultima fatica del regista e (soprattutto) sceneggiatore newyorkese, è ambientato nel 1968. Data che è già una precisa dichiarazione d’intenti per il retaggio socio-culturale che si trascina dietro. Il conflitto in Vietnam all’epoca. Donald Trump adesso. Un parallelismo quasi spontaneo che Sorkin, da intellettuale liberal al di sopra di ogni sospetto, non poteva lasciarsi sfuggire. Infatti così è stato. Una guerra d’esportazione accostata rischiosamente ad una d’importazione, i cui fuochi mai del tutto sopiti attendevano solo la fatidica scintilla per riprendere vita. Quattro anni di presidenza Trump, secondo Sorkin, sono stati un lasso temporale più che sufficiente.
Come suggerisce il titolo del film, a Chicago è in procinto di cominciare la convention del Partito Democratico. Attenzione: Democratico e non Repubblicano. Lyndon B. Johnson – subentrato a John F. Kennedy a seguito dell’attentato di Dallas – è il presidente in carica. Considerato dalla Storia uno dei principali fautori del disastro bellico statunitense nel sud-est asiatico. Un’occasione per far deflagrare le proteste contro la guerra, portate avanti dalle varie anime del variegato movimento pacifista. La violenza, scientemente indotta dalle forze istituzionali, farà degenerare le varie manifestazioni e sette dei leader del movimento andranno a processo con pesantissime accuse.
Ancora una volta la sacrale importanza della singola libertà di pensiero in ambiente ostile rappresenta il nucleo portante del cinema di Sorkin, sia esso semplicemente scritto o anche diretto. Alla sua seconda opera da regista dopo l’interessante Molly’s Game per Sorkin è arrivato il momento di alzare il tiro: il concetto stesso di democrazia è in gioco ed il suo cinema non può esimersi dal veicolare un discorso squisitamente politico, oltrepassando i meri confini dell’eventuale genere di riferimento. Con Il processo ai Chicago 7 siamo apparentemente dalle parti di un brillante, assai godibile, legal drama, genere da lui già frequentato con successo in passato (ricordate il classico Codice d’onore di Rob Reiner? E’ stato il suo script d’esordio, tratto da un suo testo teatrale) arricchito da decisive licenze poetiche, se così vogliamo definirle. Ognuna di esse, come si scriveva poc’anzi, provviste di una specifica chiave di lettura nel presente. Facile rilevare, nell’evidente faziosità del giudice Julius Hoffman (impeccabilmente interpretato da Frank Langella) a danno degli imputati, il tentativo operato da Trump di modellare, con nomine studiate ad arte, la Corte Suprema ed in generale l’intero sistema giuridico a proprio uso e consumo. Oppure la discriminazione sistematica attuata nei confronti dell’unico imputato afroamericano Bobby Seale, peraltro del tutto estraneo alle sommosse. E viene spontanea l’equazione tra le Black Panther dell’epoca con le attuali proteste riunite sotto l’unico nome di Black Lives Matter. Represse, nel film, attraverso l’omicidio fuori campo del leader cittadino delle Black Panther. Due Americhe a parlare un linguaggio che non trova punti d’incontro. E si potrebbe continuare ancora per molto.
Eppure, in un’opera in cui Sorkin tiene abbastanza sotto controllo i virtuosismi verbali a lui tanto cari e che hanno costituito l’asse portante di alcune sue sceneggiature (su tutte quella di Steve Jobs, diretto nel 2015 da Danny Boyle), si bada all’essenza, facendo emergere senza possibilità di fraintendimento l’importanza delle regole intangibili, le stesse che modulano quei principi democratici che Donald Trump si è ostinato e continua a non rispettare. Il processo ai Chicago 7 è una ricognizione sapiente, intrisa di uno stupefacente pessimismo venato d’ironia, sui mali endemici di un paese diviso; ma anche una dichiarazione di speranza sul rispetto di quel denominatore comune alla base di qualsivoglia apparato che possa definirsi democratico.
Arricchito da un cast superbo nonché perfettamente in parte – citiamo anche l’avvocato Mark Rylance e un Sacha Baron Cohen ottimamente calato in un caleidoscopico personaggio – Il processo ai Chicago 7 rinvigorisce la politica autoriale della piattaforma Netflix – dopo The Irishman di Martin Scorsese – e pone la sua autorevole candidatura nella stagione dei premi che va ad incominciare. Perché è il film giusto al momento giusto, specie in seguito a ciò che è appena accaduto a Washington in occasione della certificazione congressuale della vittoria di Joe Biden. Episodio entrato di diritto dalla parte sbagliata della Storia su cui ognuno può trarre le proprie conclusioni. Definitive o meno.

Daniele De Angelis

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