Forever friends
Bobby e Kevin sono due ragazzini sui dodici o tredici anni, amici inseparabili. Giocano a baseball e sognano un futuro migliore, lontano da una realtà di provincia squallida e opprimente. Di tutto questo lo spettatore di The Boy Behind the Door, opera selezionata nel concorso lungometraggi del Ravenna Nightmare Film Fest 2021, verrà a conoscenza subito dopo la sequenza d’apertura, un incipit oltremodo scioccante che vede i due ragazzi legati ed imbavagliati nel portabagagli di un automobile. Rapiti da mano misteriosa.
Sarà certamente chiaro, dopo questa breve introduzione narrativa, che l’opera prima del duo registico composto dagli statunitensi David Charbonier e Justin Powell è un thriller al calor bianco, un lungometraggio basato sulla disperata lotta per la sopravvivenza di un’infanzia inopinatamente finita nelle mani di adulti/orchi senza alcuno scrupolo. Interessante la scelta dei due giovani registi/sceneggiatori di non fornire nessuna motivazione logica al rapimento. I due aguzzini – anticipiamo solo, per non svelare troppo, che si tratta di una coppia, uomo e donna – non sono mossi da un’esigenza economica, tipo una richiesta di riscatto; appaiono più che altro come due squilibrati, predatori in cerca di vittime sulle quali sfogare i loro turpi istinti. Con la parte femminile ad avere una certa preponderanza nell’economia narrativa.
Tutto questo apre il campo alle più disparate interpretazioni sul senso ultimo di The Boy Behind the Door, sempre ammesso che un significato esista: un esile manifesto sui pericoli che corre la possibilità di un’integrazione compiuta negli States (i due ragazzini sono uno afroamericano, Bobby, l’altro bianco, Kevin) oppure una semplice riflessione su un’infanzia abbandonata a se stessa, alla quale non rimangono che sogni impossibili da realizzare mentre la realtà non può riservare null’altro che puro orrore? Comunque sia, una volta visto The Boy Behind the Door nella propria interezza questi ultimi restano discorsi marginali, poiché il film si adagia ben presto sui classici stereotipi della caccia del gatto al topo, con i due giovanissimi personaggi perennemente in fuga, dentro e fuori la grande casa in cui uno dei due è prigioniero, da continui pericoli in agguato. Prontissimi a scambiarsi, senza soluzione di continuità, il ruolo di salvatore l’uno dell’altro.
Non è insomma l’originalità il punto di forza dell’esordio di David Charbonier e Justin Powell. E nemmeno quel presunto tasso di cinefilia, espresso in modo piuttosto inconsulto, che li conduce a scopiazzare e replicare (il verbo citare non rende bene l’idea…) intere sequenze nientemeno che dell’inimitabile Shining griffato Stanley Kubrick. Un autentico affronto artistico che non giova affatto al giudizio finale sull’operina in questione. La quale sì, assolve in parte il suo preponderante compito di generare tensione, ma risulta anche sin troppo scontata nell’adagiarsi su schemi mille volte ripetuti e perciò in “perfetto” sentore di déjà vu. Resta da apprezzare il talento recitativo dei due piccoli interpreti, Lonnie Chavis (Bobby) ed Ezra Dewey (Kevin), forse gli unici ad essere pienamente convinti delle buone intenzioni del film, nonché una regia capace di muoversi con un certo agio negli ambienti di una magione improvvisamente trasformata in una gigantesca trappola mortale. Viste le invoglianti premesse sarebbe stato lecito attendersi qualche risvolto ulteriore, considerato pure che i due registi sono anche loro un bianco (Charbonier) ed un afroamericano (Powell). Il cinema eversivo di Jordan Peele sulle eterne problematiche razziali resta un miraggio lontano, sacrificato nel nome di una produzione a basso costo ed idee utile solamente ad iniziare un percorso cinematografico e ad aggiungere una riga in più sul curriculum. In attesa, magari, di opportunità professionali maggiormente stimolanti.
Daniele De Angelis