Il villaggio dei vampiri
Ad oggi siamo abituati a considerare la Romania, ed in particolare l’ancora oggi selvaggia regione della Transilvania, come la culla europea dei vampiri, soprattutto grazie alla figura oramai mitologica del Conte Dracula. Eppure non è esattamente così. Tutti i Balcani sono attraversati da leggende sui vampiri, ma se si deve proprio individuare un luogo che ne sia culla, o quantomeno residenza di elezione, quello è sicuramente la Serbia. Non siamo dunque stupiti che l’attore Branko Tomovic, per il suo esordio dietro la macchina da presa con questo Vampir, lungometraggio in concorso al 21° Trieste Science + Fiction Festival, abbia scelto proprio una storia di vampiri del suo paese d’origine. Quella che ci viene raccontata è una classica storia popolare dell’orrore, di quelle che tanta parte hanno avuto nel fornire materiale agli autori del genere gotico. E poi, si sa, ogni leggenda ha un fondo di verità. Difatti già il regista dichiara come l’ispirazione gli sia venuta da storie reali del ‘700; come quella dell’epidemia di vampirismo nel villaggio di Medwegya o quelle legate alle figure di Sava Savanovic e Peter Plogojowitz, il cui ricordo si mantiene ancora vivo in Serbia.
In un racconto piuttosto canonico, ma che comunque non manca di concedere al pubblico moderno un punto di vista alternativo al patinato mainstream di cui la figura del vampiro è oramai fatta oggetto ripescando nella tradizione popolare, Tomovic si segnala per una regia sicura ed attenta ai particolari. Il film è ben scritto ed interpretato. Anche la fotografia, nella quale si usa molta luce naturale, ma sempre fotografata per essere livida, sgradevole, contribuisce a costruire quell’atmosfera tesa e claustrofobica tipica di tanta letteratura e cinema gotici.
L’opera prima del Tomovic regista non si mette in evidenza dunque per qualche trovata di stile o di scrittura sperimentali, ma, al contrario, per un ritorno alle origini della storia dell’orrore. Origini oramai tanto lontane dall’attuale sensibilità del pubblico, da sembrare una novità. Come scritto prima il regista di origine serba, torna alle radici di tutto; alle storie raccontate davanti al fuoco, in piccoli gruppi di persone, che con tali racconti cercavano di penetrare le tenebre che si stringevano loro attorno da tutte le parti e riuscire così, se non a sconfiggere, quantomeno a dare un nome alla sottile angoscia che sentivano salire dalle viscere per la perdita di tutti i riferimenti che il buio porta con sé. Ed è questo il vero valore del film di Tomovic. Il recupero di una memoria ancestrale che si pensava oramai perduta irrimediabilmente e che invece, da quell’incredibile crogiolo di contraddizioni e vita che è l’Europa balcanica, rispunta, fiume carsico della memoria, e che se pure insolito non ci sembra poi così sconosciuto o alieno. E questa forse è quell’ultima scintilla rimasta sopita nella nostra coscienza che ci riporta davanti a quel fuoco, a sentire storie di creature che abitano l’oscurità.
Luca Bovio