Dal Labirinto non si esce
Difficile scrivere qualcosa di nuovo o diverso su un film per il quale sono stati versati, negli anni, fiumi d’inchiostro, metaforico e non data l’età del lungometraggio. Ci proveremo lo stesso. Consapevoli che Shining (The Shining, UK, USA 1980) è un’opera “ombra” che ha accompagnato la vita di moltissimi appassionati della Settima Arte dalla sua realizzazione ad oggi. Un oggetto cinematografico che, una volta fruito, è destinato ad essere metabolizzato per sempre, a crescere e mutare assieme all’individuo. Discorso valido, ovviamente, anche per le nuove generazioni che si accosteranno a Shining appena ne avranno l’opportunità. Poiché il camaleontico film di Stanley Kubrick cambia pelle e non invecchia mai.
Shining: la Paura
Trattandosi di Stanley Kubrick, sarebbe stato chiaro sin da subito come Shining potesse rappresentare il classico punto di non ritorno di un genere. Dodici anni prima, con 2001: Odissea nello spazio, la fantascienza aveva (momentaneamente) abbandonato il suo lato ludico per farsi riflessione straordinariamente profonda sull’epopea umana. La medesima cosa accadde con Shining. Il romanzo di Stephen King una semplice base di partenza, se non un mero pretesto – e infatti il “Re” del Maine ha sempre ripudiato sdegnosamente la trasposizione kubrickiana – per generare un lungometraggio che rompesse, rielaborandoli, i codici preesistenti nel genere horror. Osservato da questa prospettiva è facile definire l’undicesimo lungometraggio di Kubrick un anti-horror, nel senso che gli elementi cardine del genere vengono ribaltati al fine di trarre nuova linfa ed efficacia. Il buio, topos ineguagliato del genere, in Shining non esiste. Tutto è perfettamente illuminato, anzi esaltato dal bianco della neve presente nella location del Colorado. L’Overlook Hotel, sterminata costruzione vacanziera, diventa metafora di vita. L’entità diabolica che vi dimora è nient’altro che una protuberanza su un tumore già esteso e pronto a conclamarsi. Si chiama solitudine, senso di inadeguatezza nei confronti di ciò che la vita può riservare. Jack Torrance è un uomo comune, probabilmente già predisposto alla sconfitta poiché incapace, nella sua presunzione, di comprendere i propri limiti. Nell’albergo la moglie Wendy svolge i compiti di manutenzione che dovrebbero essere suoi, mentre lui si dedica alla stesura di un romanzo con gli esiti che sono ben noti. Shining si nutre perciò di opposizioni (luce, buio) e scambi di ruoli. Il piccolo Danny, figlio della coppia, nonostante la tenera età, è l’unico a capire cosa stia accadendo nell’hotel, grazie al potere nascosto che è dentro di lui e che dà il titolo al film. In Shining la paura nasce dalla destabilizzazione, dalla demolizione sistematica di ogni certezza. Tutto, persino il sangue che irrompe nei corridoi dell’albergo, ha una duplice o triplice valenza di lettura che scuote lo spettatore dal solito torpore di visioni omogeneizzate. La macchina da presa, la leggendaria steadycam di Garrett Brown, conduce il concetto di “visione attiva” fino alla radicalizzazione massima, portando lo spettatore all’interno di ciò che vede. Noi siamo lì, assieme ai fantasmi viziosi senza pace che desiderano compagnia, alle gemelline fatte a pezzi che vogliono ancora giocare, nella room 237 che rappresenta l’epicentro delle frustrazioni sessuali di Jack Torrance. Noi siamo DENTRO l’Overlook Hotel. E sappiamo che non ne usciremo. Perché una volta entrati nel labirinto, solo chi ha la “luccicanza” riesce ad uscirne. Gli altri, la maggioranza, no. La paura che infonde Shining è tutta qui. Scusate se è poco.
Shining: filosofia esistenzialista
Accennavamo poc’anzi ad una possibile lettura filosofica di Shining sull’umana imperfezione. Implacabile nella sua tragicità. Non è un mistero, del resto, che Stanley Kubrick non fosse esattamente benevolente nei confronti del genere umano. Lo si intuisce chiaramente sia dai suoi film che da alcuni aspetti della vita privata. Poche persone a circondarlo, moltissimi animali. Eppure, dopo l’ennesima visione di Shining e conoscendo più o meno a memoria gli sviluppi della trama, anche la percezione soggettiva del film cambia. Andando avanti con gli anni la paura come incandescente emozione primaria della gioventù cede il passo ad amare considerazioni su rimpianti e promesse non mantenute. Jack Torrance, da figura negativa di potenziale massacratore di famiglia, diviene un tale catalizzatore di impotenze da risultare empaticamente molto vicino a qualsiasi essere umano della sua età, con relative responsabilità magari non adempiute appieno. Shining passa allora, con straordinaria disinvoltura, dall’horror al melodramma, all’ineluttabile tragedia di un uomo ridicolo che vagheggia una perfezione maschile che non si avvererà mai, se non in un indefinito altrove conseguente alla morte. Nemmeno troppo in fondo anche Jack Torrance è la vittima di un sistema enormemente più grande di lui. Anche per tali motivi Shining è anche un attualissimo film “politico”, nel suo lato più occulto: perché tutto appare predeterminato dall’alto, perché l’unico membro del consorzio umano dotato di spirito di solidarietà – il capocuoco afroamericano – è anche il solo a morire trucidato nel corso dello sviluppo diegetico film.
Si dice che sia virtù dei capolavori offrire ad ogni visione nuovi spunti d’interesse e differenti chiavi di lettura. Così, la cinquantesima volta (numero a caso, per approssimazione) in cui si vede Shining fa addirittura commuovere. In primis per il semplice motivo che, lo sappiamo tutti, cineasti come Stanley Kubrick sono stati e rimarranno unici. Poi perché poche altre opere, camuffandosi da film di genere, hanno raccontato la profondità di una parabola esistenziale con tale lucidità. Fine, soprattutto, compresa. E, sappiamo bene anche questo, come un epilogo arrivi per tutti, prima o dopo.
Daniele De Angelis