Le vite (travisate) degli altri
Il dramma della gelosia ambientato dalla regista Francesca Marra in Abruzzo, a Sulmona e dintorni, prende quasi da subito la direzione di un thriller psicologico, in cui le ossessioni del protagonista maschile appaiono tanto morbose da spingerlo a congegnare un piano davvero cervellotico, nella sua evidente morbosità, pur di tenere sotto controllo la giovane e bellissima moglie.
Paolo, che nella vita fa il tecnico del suono, ha voluto intatti accompagnare sua moglie Linda, attrice in ascesa proveniente da un paese dell’Europa Orientale, in quella cittadina abruzzese dove si svolgono le prove dello spettacolo teatrale, per il quale le è stata offerta una parte. Ma le maniere fin troppo disinvolte e confidenziali esibite dal regista, nei confronti di una donna così avvenente e solare, sommate alla presenza di un vicino di casa dagli atteggiamenti altrettanto ambigui, finiscono per scatenare nel suo già ombroso compagno di vita reazioni sempre più paranoiche. Tant’è che l’uomo arriverà al punto di simulare una partenza, stabilirsi nella vicina villa di un’altra da lui sedotta senza troppi sforzi, ed instaurare un controllo strettissimo sulla moglie, proprio attraverso quegli strumenti di registrazione camuffati ad arte nella grande casa dove si erano provvisoriamente accampati. Il già contorto stratagemma avrà naturalmente conseguenze funeste…
Purtroppo ciò che poteva sfociare in un discorso più articolato sulla violenza di genere, nonché in una messa in scena tale da ricordare Le vite degli altri in salsa appenninica (grazie alla pervasiva sorveglianza attuata dal protagonista nei confronti di un personaggio femminile), nel modesto Soundtrack scivola progressivamente e inesorabilmente verso la banalità di un noir incoerente, fragile e incerto, a livello di scrittura, appesantito peraltro da un cast con troppi squilibri, al suo interno. Se infatti la fascinosa attrice ungherese Andrea Osvart sapeva coniugare già allora (il film è stato girato diversi anni fa, ma le classiche disavventure produttive/distributive ne hanno ritardato enormemente l’uscita) una bellezza naturale, dirompente, e qualche spazio di intimità da concedere alla dimensione interiore del personaggio, se la stessa Valentina Lodovini prometteva bene, la scelta degli interpreti maschili non è stata propriamente oculata, volendo usare un eufemismo. L’incredibile legnosità di Vincenzo Amato nel ruolo di Paolo esclude sin dall’inizio qualsiasi complicità da parte dello spettatore, nell’attribuire credibilità alle azioni da lui intraprese e alle relative motivazioni psicologiche, accentuando così gli scompensi già insiti nella storia in sé, buttata giù – specie nella sua componente gialla – in modo un po’ troppo grossolano e precipitoso.
Stefano Coccia