Il coraggio di una testimonianza
Per un film coraggioso, ci vuole anche a volte una distribuzione coraggiosa: lode quindi a Invisible Carpet, che ha scommesso su Sotto il cielo grigio portandolo, a partire dal 28 novembre, nelle sale italiane. Se l’anteprima nazionale del vibrante lungometraggio in realtà ha avuto luogo lunedì 25 novembre nel piemontese Ideal Cityplex, proprio durante quel Torino Film Festival diretto da Giulio Base che lo ospitava in concorso, il nostro contatto col film della polacco-bielorussa Mara Tamkovich è avvenuto invece il 28 stesso, presso l’Istituto Polacco di Roma, grazie all’emozionante evento speciale che ha visto partecipare non soltanto l’autrice, ma anche Darja Čulcova, giornalista indipendente bielorussa rifugiata in Polonia, Paolo Borrometi, condirettore AGI – Agenzia Giornalistica Italia, Stefania Battistini, inviata del TG1, e Duilio Giammaria, anche lui giornalista, il quale ha moderato l’incontro con una certa vivacità.
Un’occasione imperdibile, quindi, sia per guardare il film sul grande schermo nella splendida cornice dell’Istituto Polacco (dove al contempo si sta svolgendo una splendida mostra dedicata all’artista Krzysztof M. Bednarski, cui si devono anche importanti sculture funerarie come quella posta sulla tomba di Krzysztof Kieślowski ed ispirata alla celebre pellicola Il cineamatore), sia per interfacciarsi con un appassionante film di denuncia potendo poi affrontare quei temi, così delicati, assieme a professionisti dell’informazione più vicini di altri a simili situazioni. Tanto per dire Paolo Borrometi dall’agosto 2014 vive sotto la scorta dei Carabinieri per via delle ripetute intimidazioni mafiose, culminate in Sicilia nella feroce aggressione subita lo stesso anno.
Dalla Sicilia alla Bielorussia passando per molti altri paesi, vedi quel Messico che rappresenta un po’ un caso limite (quadro drammatico ben evidenziato dal documentario State of Silence, passato di recente al Festival di Roma), la vita di quei giornalisti che non intendono piegarsi a pressioni e coercizioni di varia natura non soltanto non è facile, ma può diventare estremamente pericolosa: se ne sono accorte a proprie spese la già menzionata donna cameraman Darja Čulcova e soprattutto la collega Katsaryna Andreyeva (chiamata nel film Lena), due giornaliste indipendenti che nel 2020 subirono un arbitrario, violento arresto, solo per aver filmato le manifestazioni di piazza contro i brogli elettorali di Lukašenko, proteste a loro volta brutalmente represse dalla polizia antisommossa. La prima delle due inviate è uscita dal carcere dopo due anni, l’altra vi si trova ancora, condannata a una lunga e abnorme pena detentiva al termine di un processo-farsa.
Nel lungometraggio di Mara Tamkovich centrale è proprio il personaggio di Lena, introdotto nel racconto attraverso le scene così concitate e drammatiche dell’arresto, subito per quel reportage in diretta che in altri paesi sarebbe stato considerato una prassi normale, ma non evidentemente nella Minsk tenuta in ostaggio dall’autoritario leader politico bielorusso; mentre a salire via via in primo piano è il complesso rapporto della donna col marito e collega Ilya, giornalista indipendente e contrario al regime anche lui, il cui desiderio di assisterla il più possibile in carcere e possibilmente tirarla fuori da lì è destinato a scontrarsi non solo con la dura realtà, ma anche con decisioni difficilissime da prendere sul piano etico e professionale. Con non poco sgomento abbiamo scoperto durante il successivo incontro che nelle ultime settimane pure l’uomo è stato arrestato, in seguito alle solite grottesche accuse.
Cominciamo col dire che non è la prima volta in cui il cinema di finzione affronta la tetra realtà della dissidenza in Bielorussia. Il primo titolo che ci viene in mente è Minsk di Boris Guts, in concorso al Bergamo Film Meeting nel 2023. Se però lì una regia indubbiamente efficace dava fin troppa rilevanza al classico colpo allo stomaco, alle trovate ad effetto, ciò che ci ha conquistato di Sotto il cielo grigio è l’essere comunque un’opera cinematografica tesa, vibrante, diretta, ma con molti più margini per la riflessione, per un’esplorazione approfondita del versante interiore dei personaggi. Sintomatico in tal senso lo sconsolato dialogo tra due personaggi maschili in pena per la sorte di Lena, mentre in sottofondo si può ascoltare il poetico brano musicale di Zmitser Wajtyushkevich, “Sono nato qui“, nelle cui strofe laconicamente incentrate sul tetro passato sovietico e sulle aporie del presente fa capolino anche il verso che dà il titolo al film.
Promosso quindi a pieni voti il lungometraggio di Mara Tamkovich. E molto stimolante anche il successivo dibattito. Su un elemento, però, riconducibile ad alcune affermazioni dei giornalisti presenti in sala, ci ritroviamo a dissentire categoricamente: la troppo facile (e a nostro avviso forzata) sovrapposizione, identificazione degli sfortunati e oltremodo legittimi moti di piazza a Minsk nel 2020, con la precedente esperienza di Majdan in Ucraina. Una visione di comodo avvallata sovente dalla stampa italiana (e dei paesi occidentali) maggiormente vicina alle posizioni di governo. Ma, di fatto, due piazze (e due situazioni sociali) in realtà ben diverse. Laddove grande stima abbiamo delle proteste del popolo bielorusso avvenute non solo per il grave sospetto di brogli elettorali, non solo per il crescente autoritarismo, ma anche per l’insensibilità del regime di Lukašenko nei confronti delle più aspre problematiche sociali ed economiche del paese, di altra natura è ciò che è avvenuto a Kiev nel 2014; un qualcosa, cioè, che non solo ha di fatto spaccato in due il paese, portando seri motivi di scontento a quella cospicua parte della popolazione di lingua russa e propiziando autentici scempi come la successiva strage alla Casa dei Sindacati di Odessa, ma ha messo in luce zone d’ombra della società ucraina attuale su cui il “democratico” Occidente ha chiuso un occhio, per “distrazione” o per dolo, con eccessiva facilità: le infiltrazioni di elementi “banderisti” (peggio che neonazisti, per certi versi) nella rivolta, prima di tutto, ma anche la più che probabile intromissione (poiché molteplici sono le tracce lasciate) di servizi segreti e amministrazioni politico-militari occidentali. Molto diversa (nonché di gran lunga più pulita) ci appare la matrice della protesta in Bielorussia. E pure questo, sulla bilancia della Storia, andrebbe considerato.
Stefano Coccia