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Else

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VOTO: 8

Dalle Metamorfosi di Ovidio al lockdown

Metamorfico e polisemico nella sua essenza più profonda, Else di Thibault Emin rientra senz’altro tra le visioni più disturbanti collezionate finora al Monsters – Fantastic Film Festival. Inserito in Nuove Tendenze – Concorso Lungometraggi e proiettato a Taranto martedì scorso, il film dell’emergente cineasta francese può essere considerato a tutti gli effetti una “ossessione d’autore”, anche per l’essersi innestato su un precedente cortometraggio e per il fatto che tale progetto cinematografico ha richiesto, complessivamente, circa 13 anni di gestazione.
Cotanto “parto” assume nelle parole del regista, cresciuto a Parigi con una passione sconfinata per gli esiti più maturi del cinema fantastico, da Lynch a Kitano passando naturalmente per David Cronenberg (il riferimento più immediato, di fronte a tale opera), un significato ben preciso: “Voglio credere che la nostra specie si stia evolvendo nel movimento verso l’Altro, andando sempre più lontano. Ancora più in là dell’incrocio di corpi, popoli e culture: verso l’incrocio di pensieri e identità. E verso qualcosa che esiste ancora solo nella fantasia o nella fantascienza: la connessione diretta e organica tra gli esseri. Un’idea spaventosa, certo, ma è compito del cinema toccare i limiti e scuotere le nostre certezze.

Approccio alla materia senz’altro impegnativo, quello di Thibault Emin. Sostanziato, però, da una narrazione che effettivamente muta forma più volte nel corso della visione, chiedendo al pubblico stesso di abbandonarsi a una trasformazione (sia fisica che interiore) all’apparenza del tutto sconcertante, orripilante, ma che può rivelare nella sua progressione e – soprattutto – in prossimità dell’epilogo una sorprendente chiave filosofica, da intendersi in senso prettamente evolutivo.
Forse un po’ prolissa, la parte iniziale del lungometraggio dà a tratti l’impressione (fallace) di essere destinata a farsi imbrigliare da determinate modalità espressive, quelle tipiche dell’era pandemica.
Dopo una notte di sesso selvaggio i due protagonisti, Anx e Cass, sembrerebbero pertanto prigionieri di schemi mentali e ideali di vita sensibilmente diversi, che li terranno lontani per un po’. Ma sottotraccia l’attrazione rimane. E la passione si riaccenderà proprio alla vigilia di un evento molto temuto: il lockdown totale stabilito dalle autorità, nel tentativo di circoscrivere un morbo devastante, del quale si sa ancora poco. Vi ricorda qualcosa?
Fin qui l’estetica di Else sembrerebbe ricalcare il già visto, ovvero una condizione di anormalità divenuta all’improvviso normale, accettata da (quasi) tutti: gente costretta a tapparsi in casa, controlli militari e di polizia per le strade, notizie allarmistiche diffuse senza scrupolo alcuno in televisione o alla radio.
Ma è la natura stessa del contagio a far compiere al racconto un impressionante salto di qualità…

In giro si dice infatti che la tanto temuta malattia possa essere trasmessa dai contagiati direttamente con lo sguardo (e pure qui potrebbe tranquillamente trattarsi di un’allegoria, ricalcata sulle tristi paranoie dell’era Covid), ma sono gli effetti a essere tanto orrendi quanto incredibili: dopo i primi sintomi, subito visibili sulla pelle, questa per prima e poi anche gli altri tessuti organici degli infetti, ormai condannati, cominciano a fondersi con sostanze inorganiche come pietra, legno, tessuti, dando luogo a ibridazioni spaventose e letali.
Per un po’ il più sospettoso Anx e la così libera Cass (che ad ogni modo sta per “Cassandra”) penseranno di potersi sottrarre a tale pericolo. Ma quando l’orrore si farà beffe di porte sbarrate e di barricate alle finestre, facendo il suo trionfale ingresso nella casa, dovranno accettare entrambi il fatto che nulla sarà più come prima. A partire dai loro corpi.

Mescolando coscienziosamente echi di narrazioni parecchio antiche (Ovidio e le sue Metamorfosi) con quanto di più avanzato si è visto, in tal senso, nel cinema contemporaneo, Thibault Emin ha saputo dar forma a un incubo agghiacciante che sconfina però a lungo andare in un’incalzante, provocatoria riflessione filosofica. Contrastare o accettare la mutazione in atto? Gli stessi protagonisti saranno costretti a rivedere le proprie certezze a riguardo, mentre l’estetica del film accompagna quel loro procedere a tentoni (la cecità stessa diventa qui una metafora) in una realtà ormai aliena, alternando lo shock totale de La cosa di Carpenter ai riflessi più ambigui della così preveggente e stratificata poetica di Cronenberg.
Visionario, spettrale, magmatico, il film stesso abbandona i vivaci e rassicuranti cromatismi dell’inizio, sondando prima lo spaesamento cupo del bianco e nero, poi un’opacità terrigna che sembra già prefigurare il nuovo mondo. Laddove l’umanità comunemente intesa lascerà spazio ad altro.

Stefano Coccia

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