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Quando ci si trova al cospetto di un’opera che porta la firma di Guy Maddin, realizzata in solitario o come in questo caso nuovamente con la complicità di Evan e Galen Johnson (vedi The Forbidden Room e The Green Fog), bisogna aspettarsi, nel bene e nel male, di tutto, consapevoli che ciò al quale si andrà incontro, narrativamente, drammaturgicamente e visivamente parlando, non rispecchierà i canoni e i modus operandi del fare e concepire la Settima Arte in maniera classica e lineare. Ciò che viene partorito dalla mente del regista e sceneggiatore canadese e portato sul grande schermo è un cinema all’insegna della provocazione, della sperimentazione e se volete mai accomodante, sempre controcorrente e quindi non al passo con le tendenze del momento. Insomma l’approccio alla pellicola di turno necessita della piena e incondizionata accettazione delle suddette regole d’ingaggio, valide neanche a dirlo pure per questa sua nuova fatica dietro la macchina da presa diretta a sei mani con i fratelli Johnson, dal titolo Rumours.
Ribadito il concetto, c’è da registrare purtroppo con il film in questione, presentato fuori concorso alla 77esima edizione del Festival di Cannes e al 34° Noir in Festival, una battuta d’arresto nel già frastagliato e irregolare percorso artistico di Muddin e di conseguenza in quello dei suoi complici. Nemmeno la presenza tra i produttori esecutivi di Ari Aster, che dal canto suo non perde mai l’occasione per dare un contributo a operazioni fuori norma e aggiungiamo di testa (vedi il folgorante Sasquatch Sunset di David e Nathan Zellner), è servita a permettere al risultato di non inabissarsi al di sotto della linea di galleggiamento della sufficienza. I motivi della débâcle sono molteplici, ma vanno ricercati principalmente nella fase di scrittura e di riflesso nella sua trasposizione. Ci si ritrova fare i conti con l’amaro in bocca lasciato da quelle opere come Rumours che sarebbero potute essere e invece non sono volute o potute essere, ovvero nel caso specifico un’urticante e scomoda dark-comedy al vetriolo che punta il dito minaccioso contro le logiche e le pratiche contorte, cattive e malate del potere e di coloro che lo esercitano nel peggiore dei modi. Muddin e soci individuano i carnefici e futuri bersagli nei primi ministri di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia, Germania, Canada e Giappone, che prendono parte a un G7 organizzato in una suggestiva corniche del castello di Dankerode in Germania. I leader delle sette democrazie più ricche del globo, dipinti come antieroi difettosi, vulnerabili, pieni di problemi emotivi, impreparati e improvvisati, sono chiamati a stilare insieme un testo importante per affrontare una crisi mondiale, ma qualcosa va storto e finiranno coinvolti in una serie di vicende misteriose e impreviste che complicheranno in modo inesorabile l’andamento delle cose, fino a stravolgerle del tutto. Perso nel bosco e in cerca di una via d’uscita dalla fitta vegetazione, il gruppo dovrà vedersela con un’orda di morti viventi e persino con un cervello gigante.
Siamo su traiettorie diverse per mood e intenzioni rispetto a Le confessioni di Roberto Andò, ambientato in un albergo di lusso di una località costiera tedesca, Heiligendamm, laddove si riunisce un G8 dei ministri dell’economia, pronto ad approvare una manovra segreta che avrà conseguenze pesanti per molti Paesi. Anche in quel caso si affrontava il tema del potere, in particolare della grande finanza, e delle debolezze degli uomini che lo gestiscono, ma sicuramente con molta più incisività e volontà di denuncia rispetto a Rumours. Quest’ultimo è un ordigno bellico disinnescato dalle stessi mani di chi lo ha armato e innescato per farlo deflagrare sullo schermo. La scelta di mischiare la satira politica con la farsa, il mystery movie con l’horror e il genere catastrofico non sortisce l’esito desiderato e ciò che ne viene fuori altro non è che un oggetto filmico che non graffia come avrebbe potuto e dovuto. E non lo fa a causa di uno humour che resta in superficie e non affonda le unghie sullo schermo, scegliendo di dare spazio a una derisione leggera figlia di un intrattenimento scialbo, scarico e futile, piuttosto che a denuncia impegnata che avrebbe potuto mietere delle “vittime eccellenti”. E suo e nostro malgrado nemmeno il cast all star a disposizione, nel quale figura, oltre a Cate Blanchett e Alicia Vikander, anche un Rolando Ravello nei panni di un buffo primo ministro italiano simpatizzante con il fascismo, riesce a impedire a questa operazione nata con le migliori intenzioni e un ottimo potenziale di naufragare.
Francesco Del Grosso