Sei personaggi in cerca di popolarità
Ogni concorso, indipendentemente dal prestigio, dalla geolocalizzazione e dalla collocazione nel circuito internazionale della kermesse cinematografica che lo ospita, ha normalmente uno o più punti deboli, corrispondenti a quel o a quei titoli meno riusciti o non all’altezza di competere con il resto della selezione. Nel caso della line-up di quelli che si sono contesi il Black Panther Award per il miglior film nel corso di una 34esima edizione del Noir in Festival dal livello qualitativo decisamente elevato, la sorte e i demeriti della pellicola in questione hanno voluto che sia stata proprio la sola battente bandiera tricolore in gara a rappresentare il tallone d’Achille. Si tratta di Dedalus, l’opera seconda di Gianluca Manzetti, presentata in anteprima mondiale proprio alla kermesse milanese in attesa di una futura uscita nelle sale con Eagle Pictures.
Purtroppo, il film diretto dal regista romano si è dimostrato debole strutturalmente, discontinuo tecnicamente e nella messa in scena, oltre che mal supportato da un cast al di sotto delle proprie potenzialità, dal quale ci sentiamo di salvare il solo Gian Marco Tognazzi, che a differenza dei più giovani colleghi di set ha fatto valere il ricco bagaglio di esperienza alle spalle per uscire indenne dal naufragio generale e consegnare allo spettatore una performance convincente e credibile. Cosa che non si può dire del resto del cast, nel quale figurano figurano attori di talento come Luka Zunic, Matilde Gioli, Francesco Russo, Giulio Beranek, Giulia Elettra Gorietti e Stella Pecollo. Sono loro a vestire i panni dei sei creativi selezionati per partecipare a “Dedalus”, un nuovo social game che promette di ridefinire il mondo del Web 3.0 e di rendere il vincitore ricco e famoso. Rinchiusi in un’arena isolata, i concorrenti partecipano a giochi che si rivelano sempre più pericolosi. Quello che sembrava un semplice gioco si trasforma lentamente in qualcosa di completamente diverso e i creatori, da concorrenti, si ritrovano a essere carnefici e vittime di un’elaborata vendetta.
Si evince dalla lettura della sinossi la duplice anima da revenge movie e thriller distopico dalle tinte dark che caratterizza e alimenta con i rispettivi stilemi il DNA del film. Un film per il quale, suo e nostro malgrado, non sono state sufficienti in fase di scrittura il contributo e le competenze di quattro teste e otto mani come quelle di Vincenzo Alfieri, Nicola Barnaba, Roberto Cipullo e Francesco Maria Dominedò. Dedalus, nonostante le buone e nobili intenzioni da parte degli autori di trattare tematiche drammatiche e di strettissima attualità (i rapporti disfunzionali tra gli esseri umani ai tempi dei social network, il bisogno spasmodico e ossessivo di apparire, di consensi e visibilità, etc…) che il più delle volte danno le giuste motivazioni ma finiscono con il non bastare, ha nella scrittura poco ispirata dalla mancanza di originalità di partenza di una storia che presenta un numero indefinito di analogie con opere appartenenti ai filoni di riferimento, dagli intrecci fragili e dalle risoluzioni prevedibili, la base instabile sulla quale costruire il racconto e la sua messa in quadro. La mente in tal senso va default va a Squid Game, ma gli ingredienti comuni con tanti altre produzioni del passato più o meno recente, del quale proprio a causa del numero elevato di titoli ci limiteremo a citare solo qualche esempio: da My Little Eye a Escape Room, da Funhouse a Circle, passando per Nerve. Il problema di fondo e a quanto pare insormontabile, che finisce con il pesare nell’economia globale dell’operazione, sta nell’atteggiamento intellettualmente pigro di non staccarsi da dinamiche già viste e codificate nel genere. Modificare qualcosina, rimpastarla per l’occasione mascherandola in altra veste, non dare delle pennellate personali al quadro d’insieme, rende lo sforzo produttivo e creativo invano. Si cerca insistentemente il colpo ad effetto per risollevare la partita e prendere in contropiede lo spettatore, ma nulla di questo va a buon fine.
Dal canto suo, Manzetti prova con la sua troupe, tra cui il direttore della fotografia Andrea Arnone, a tirare fuori il meglio da un plot che aveva delle potenzialità intrinseche da sfruttare, a cominciare dalla componente mistery, dalla tensione e dall’adrenalina dettate dalle prove e dai rebus sottoposti ai protagonisti durante il gioco. Il contributo e le soluzioni visive (alcune delle quali prese singolarmente potrebbero risultare esteticamente efficaci) trovate prima in fase di ripresa e poi di montaggio non riescono a rialzare l’asticella. Ecco che una volta tirate le somme, il passaggio del cineasta capitolino da un più riuscito e nelle corde coming of age dal sapore noir e indie come Roma Blues a un trans-genere troppo ambizioso e complesso come Dedalus è stato forse un salto nel buio davvero precoce.
Francesco Del Grosso