Sei anni di noi
Per chi non lo conoscesse, Tom Cullen è un attore britannico dal curriculum di tutto rispetto, con una carriera estremamente versatile che varia da serie di successo come Black Mirror, Gunpowder e Downtown Abbey a piccoli film indipendenti come Mine e 100 Streets. Nel 2011 ha vinto il premio della giuria al SXSW per la sua interpretazione in Weekend di Andrew Haigh. È stato inoltre protagonista di altre due piccole premiate allo stesso festival: Black Mountain Poets e The Other Half. Per questo la scelta di iniziare il percorso della sua opera prima Pink Wall proprio dal prestigioso festival texano di Austin è apparsa quasi scontata, quasi fosse una sorta di rito propiziatorio per attirare su di essa influssi positivi. E infatti le selezioni in altre importanti vetrine del circuito festivaliero non hanno tardato ad arrivare, a cominciare dall’approdo nel concorso della 37esima edizione del Torino Film Festival.
Coincidenza a parte, per il suo debutto dietro la macchina da presa, che lo ha visto impegnato anche davanti nel piccolo ruolo di un amico della coppia protagonista, Cullen ha puntato su una storia d’amore moderna, che segue i sei anni di relazione tra Jenna e Leon. Raccontato attraverso gli highlights della loro relazione, il film mostra come sia l’amicizia sia i risentimenti crescano man mano che le preoccupazioni della vita adulta li mette a confronto. Ne scaturisce un melodramma a capitoli che mostrano altrettanti momenti salienti della suddetta love story, dal colpo di fulmine in una discoteca che li terrà svegli sino all’alba sino alla parola fine scritta un giorno d’inverno con un doloroso addio consumato in una scena davvero toccante. Non si tratta in questo caso di uno spoiler, poiché quella di Pink Wall altro non è che la parabola sentimentale per antonomasia di un amore che nasce e muore tra alti e bassi, gioie e dolori, passione e brusche frenate. Il tutto restituito sullo schermo mediante una scansione del racconto non lineare che asseconda quello che è un modus operandi comune, ossia quello di giustapporre diversi momenti per costruire un panorama sentimentale all’interno della nostra storia emotiva. Insomma, quando è giunta l’ora del bilancio si è soliti mettere insieme i ricordi belli con quelli brutti ed è esattamente ciò che fa il regista sin dalla fase di scrittura per poi applicarlo in quella di montaggio.
Il risultato è una frammentazione spazio temporale che ricorda vagamente 5×2 di François Ozon, laddove il cineasta francese ricostruisce la vicenda au contraire attraverso cinque momenti della loro storia visti in ordine cronologico invertito: il divorzio, una serata intima, la nascita del figlio, il matrimonio, il primo incontro. A cambiare è dunque il tipo di scansione che passa dalla modalità reverse a quella randomonica. Nella pellicola dell’attore e regista inglese si assiste quindi a un jump cut continuo che alterna al travolgente primo incontro altri cinque episodi chiave del romanzo amoroso, tutti caratterizzati da un evoluzione interna che ne muta nel tono. Si assiste infatti in tutti e sei i capitoli a un cambio improvviso che ciclicamente vede la situazione inclinarsi, degenerare o raffreddarsi a causa di una parola, di un gesto o di una riflessione a voce alta fuori posto. L’incipit nel ristorante è il bigliettino da visita di questo persistente modo di procedere.
Risiede proprio in questa capacità di mutare in un battito di ciglia la temperatura degli eventi e dei confronti verbali, nel farlo in maniera tanto efficace, il valore aggiunto dell’operazione. In generale non c’è e non ci può essere nulla di originale in un plot come quello di Pink Wall, tantomeno nella costruzione dei personaggi che lo animano, poiché quella che va in scena è la classica parabola amorosa. Questo è sicuramente un limite, ma l’autore sembra non preoccuparsene più di tanto. Ciò che va ricercato è quindi e altro, che può essere il coinvolgimento, l’empatia, la verità e le personali analogie che possono innescarsi tra quello che scorre sullo schermo e le esperienze dello spettatore. In tal senso, è bravo a creare un filo diretto tra le due parti. Il tramite e punto di contatto sono le interpretazioni di Jay Duplass e soprattutto della canadese Tatiana Maslany, già vista e apprezzatissima nei ruoli di Erin in Stronger e di Petra in Destroyer.
Francesco Del Grosso