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The Children of the Dead

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VOTO: 5

L’orda siriana

Dall’alba di quello che è diventato a tutti gli effetti un filone del cinema fanta-horror che può contare sul contributo alla causa di illustri nomi della Settima Arte, lo zombie-movie è stato declinato in tutte le salse possibili e immaginabili. All’appello mancava sicuramente qualcosa e quel qualcosa forse lo hanno realizzato la coppia formata da Kelly Copper e Pavol Liska, che dal 1996 hanno dato vita al Nature Theater of Oklahoma in quel di New York, collettivo con il quale hanno firmato la regia di The Children of the Dead.
Prodotto da Ulrich Seidl e presentato nella sezione “After Hours” della 37esima edizione del Torino Film Festival dopo l’anteprima alla Berlinale 2019, il film del duo ceco-statunitense aggiunge un nuovo tassello, con relativa variante sul tema, al suddetto filone portando sul grande schermo la prima orda di poeti siriani zombi, catapultati come clandestini nella fredda e a quanto pare inospitale Stiria. Idea folgorante e curiosa non c’è che dire, ma che non è purtroppo farina del loro sacco visto che la pellicola in questione altro non è che il libero adattamento cinematografico del monumentale romanzo omonimo di Elfriede Jelinek, realizzato da Copper e Liska nei luoghi in cui la scrittrice premio Nobel è cresciuta. Nella loro versione assistiamo a un film in super8 delle vacanze in Alta Stiria che si trasformano lentamente in una risurrezione di spettri e nel ritorno dei non morti.
Il loro The Children of the Dead mescola senza soluzione di continuità, come una maionese fatta con uova marce e volutamente fatta impazzire, l’alto e il basso, la letteratura d’autore con il footage amatoriale americano in stile B-movie, per non dire di serie Z. Insomma per rendere l’idea è come se lo zombie movie incontrasse Heimat, partorendo un ibrido del tutto fuori controllo che rigurgita sulla platea di turno l’impossibile, ma solo all’apparenza per intrattenere gli appassionati del genere con frattaglie, sangue arti divorati. Il tutto in maniera assolutamente goliardica, provocatoria e splatter, ma con il dichiarato intento di sparare a zero sulla controversa questione della (im)possibilità di un’adeguata elaborazione del debito maturato, delle ideologie e di tutti quegli aspetti che ancora oggi fanno parte dell’identità nazionale austriaca. È chiaro dunque che il gruppo di siriani arrivato tra i boschi della Stiria viene visto dalla popolazione locale come una minaccia, qualcosa da allontanare e al quale impedire un processo di accoglienza e integrazione.
Temi a parte, affrontati con una dose massiccia di dissacrante, trash, cinismo e politicamente scorretto, il film raggiunge presto un livello di saturazione tale da causare nello spettatore un rigetto. Ciò determina una repentina perdita d’interessa nei confronti di una timeline nella quale iniziano a palesarsi situazioni fotocopia e ripetitive che non fanno altro che allungare il brodo. Questo per dire che le batterie dell’originalità si consumano a metà del percorso quando tutto è già stato detto e mostrato. Quello che segue altro non è che un riempitivo per coprire la lunga distanza. Per quanto riguarda la confezione, il ricorrere al finto footage con didascalie che rievocano il cinema muto è una soluzione narrativa e visiva assolutamente accessoria.

Francesco Del Grosso

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