Proposta indecente
Per il prolifico e instancabile Johnnie To un film come Office segna un duplice esordio, che porta nella sua sterminata filmografia elementi nuovi e strade ancora inesplorate. La pellicola, presentata nella Selezione Ufficiale della decima edizione della Festa del Cinema di Roma, è la sua prima volta con la tecnologia stereoscopica che, come avrete modo di constatare con i vostri occhi se mai raggiungerà le sale nostrane, si risolve in una nuvola di fumo che avvolge inquadrature, scenografie e personaggi. L’utilizzo che il regista hongkonghese fa del 3D non è altro che un accessorio per provare a gonfiare il prezzo del biglietto e nulla di più, superfluo ed ectoplasmatico almeno quanto quello offerto da Wenders nella sua ultima e deludente fatica dietro la macchina da presa dal titolo Ritorno alla vita. Praticamente invisibile, sterile e intangibile ai fini della fruizione, la tridimensionalità non contribuisce minimamente, se non in una manciata di scene (vedi la corsa in dolly sulle scale che portano al tetto) a impreziosire e rendere più spettacolare le immagini. Ciò che resta è purtroppo una successione di inquadrature che non rendono per nulla giustizia al tipo di regia straordinariamente potente ed efficace alla quale To ci ha abituato fin dall’alba della sua produzione. Le soluzioni visive e lo stile proposto qui perdono carica e tasso di spettacolarizzazione, a favore di una composizione troppo classica e lineare che suona del tutto inaspettata. Anche in opere meno riuscite come Turn Left, Turn Right o Running on Karma, l’approccio tecnico risultava quantomeno variegato. Per ciò, visti precedenti come The Mission, PTU, Breaking News, Exiled, Vendicami o Drug War, consideriamo quanto apparso sul grande schermo in questa circostanza null’altro che una battuta d’arresto, proprio sulla base di ciò che il cineasta ha saputo mettere in quadro nei decenni passati.
La seconda novità riguarda invece il genere sul quale il regista asiatico ha deciso di puntare, vale a dire il musical. Con Office, infatti, To continua il suo personalissimo viaggio nel ventaglio dei generi, ma l’esito a nostro avviso non è all’altezza della situazione. Il risultato non convince, probabilmente perché si tratta di una formula composta da ingredienti che il cineasta non è stato capace di amalgamare e utilizzare. Nello script e nella sua trasposizione c’è spazio solo per siparietti canterini neanche troppo esaltanti, che fanno completamente a meno della componente coreografica. Scelta condivisibile, ma che finisce con l’abbassare il tasso di coinvolgimento dello spettatore di turno. Forse è lo stesso To a rendersene conto, tant’è che prova a tamponarne l’assenza ricorrendo al proprio archivio. Come da consuetudine, preferisce iniettare nelle vene dello script di turno altri colori e registri, così da violare la purezza del genere di riferimento contaminandolo con altro, sino a ottenere un’ibridazione che passa attraverso un mix ben calibrato. Questa volta, al musical associa elementi thrilling e melò che tengono a galla il plot, senza però salvare più di tanto la barca dall’inabissamento sotto la soglia della sufficienza. Non è un caso, infatti, che il film riprenda quota solo nell’ultimo atto, ossia quando i suddetti elementi si impadroniscono dello script sovrastando la base di partenza. In quel frangente, che accompagnerà il più convincente epilogo, il regista hongkonghese smette di essere un pesce fuor d’acqua, arrivando anche a ritirare su quel ritmo che nell’ora e passa precedente era apparso piatto e zoppicante, alternando accelerazioni ad autentici passaggi a vuoto.
Office è un gioco di specchi nel quale lo spettatore e i personaggi possono guardare cosa la Società contemporanea è diventata a causa della competitività imperante, dell’individualismo sfrenato e soprattutto dell’avidità. To mette in scena una battaglia a sfondo finanziario ambientato in una società di consulenza e marketing dove le regole vengono meno e gli intrighi, i sotterfugi, i colpi bassi e i voltafaccia sono all’ordine del giorno. A fronteggiarsi nelle stanze di questa torre di vetro e acciaio una fauna pronta a sbranarsi in qualsiasi momento, dove i giovani vogliono avere successo, mentre le persone di successo vogliono sempre più potere e salute. Il tutto in nome della corruzione e del vile denaro (grandi orologi posizionati in ogni sala dell’edificio ricordano in continuazione ai personaggi che il tempo è denaro). Il regista costruisce un gigantesco palazzo di ipocrisia, dove tutto è sotto gli occhi di tutti, ma nessuno ha il coraggio di dire la verità anche quando questa è lampante. Questo è forse l’unico aspetto interessante del film, restituito sullo schermo attraverso vetrate che vanno a sostituire le pareti; ma non basta a cambiare le sorti di un’opera che fallendo su più fronti dovrebbe convincere definitivamente To a dedicarsi a quello che gli viene magnificamente bene, ossia l’action, il poliziesco o il gangster movie.
Francesco Del Grosso