Senza confini
Magie del Cinema. Paul Thomas Anderson si cimenta per la prima volta nel documentario e riesce a mantenere intatte tutte le caratteristiche che lo hanno reso uno dei cineasti più importanti dell’ultimo ventennio, negli Stati Uniti e non solo. Il presupposto, di puro stampo renoiriano è sempre quello: girare un film, dentro i propri confini oppure, a maggior ragione, fuori dagli stessi, è un’esperienza alla stregua di un viaggio collettivo da studiare attentamente e da cui apprendere tutto ciò che è possibile. Nel caso di Junun – questo il titolo del documentario presentato nell’ambito della Sezione Ufficiale della Festa del Cinema di Roma 2015 – ad un viaggio musicale nella lontana India non può che corrispondere un’emozionante esperienza culturale, sociale e soprattutto di arricchimento morale. Ma ciò che più stupisce è l’innata capacità di Anderson di riuscire a trasmettere tutta questa ricchezza di contenuti anche allo spettatore al di là dello schermo, del tutto rapito tanto nei sensi quanto nel profondo dell’animo.
Lo spunto per la realizzazione del progetto è stato fornito a Paul Thomas Anderson dal viaggio in India dell’amico Jonny Greenwood, celebre chitarrista solista dei Radiohead nonché compositore delle colonne sonore dei film di Anderson da Il petroliere (2007) in poi. Con Greenwood impegnato a sperimentare sonorità inedite con musicisti indiani, la regia non si sofferma sulla “semplice” ripresa visiva del gruppo in azione; anzi rende la cinepresa un personaggio autonomo in perfetta identificazione con il pubblico, curioso sia di ascoltare musiche che definire affascinanti sarebbe ampiamente riduttivo, ma anche di osservare il contesto ambientale in cui questo miracolo fiorisce. Memorabili riprese panoramiche dall’alto – a vero e proprio, non solo simbolico, volo d’uccello – sullo stato indiano di Rajasthan, epicentro di uno sterminato paese che, a dispetto di tutti gli ostacoli disseminati sul suo percorso di crescita, sta percorrendo a tutti i costi la strada dell’apertura con il resto del mondo. Anche per questo motivo Junun, più che un semplice film, appare come un’opera-manifesto sui modi infiniti in cui l’Arte riesce ad unire ciò che molti altri fattori negativi tendono invece a dividere. In tutto ciò la videocamera di Anderson si schiera sempre dalla parte dell’emozione non banalmente epidermica e della riflessione più spontanea; con quella stessa umiltà che lo portò a scegliere di fare il regista in “stand-by” per Radio America (2006) di Robert Altman, con l’autore de Il lungo addio già da tempo malato. Possibilità preziosa – e purtroppo ultima – di ammirare al lavoro uno dei suoi punti di riferimento cinematografici. Ecco, forse il cinema di Paul Thomas Anderson, di per sé già saturo di sfaccettature e possibili chiavi di lettura, andrebbe anche interpretato sotto l’ottica del testo aperto “all’infinito” come dono di massima generosità: ne è testimonianza probabilmente definitiva questo Junun, documentario breve (54 minuti di durata) e a bassissimo costo ma dall’inestimabile valore simbolico. Non solo, per l’appunto, sotto il pur importante aspetto artistico ma soprattutto come messaggio di incontro, conoscenza e conseguente integrazione. Perché alla fine – e Junun, nemmeno troppo tra le righe, afferma proprio questo – una sola lingua è possibile parlarla nel mondo. In ambito musicale, cinematografico e anche oltre…
Daniele De Angelis