La ricerca del contatto
Già presentato al Toronto International Film Festival, Full Contact del regista olandese David Verbeek è stato proiettato in anteprima alla decima edizione della Festa del Cinema di Roma, tra i film della Selezione Ufficiale.
Pellicola in buona parte onirica e surreale, Full Contact sceglie di trattare un argomento concreto e di grande urgenza adoperando un registro che rifugge spasmi definitori e oggettivanti, e punta su un linguaggio tanto suggestivo quanto disorientante, con il rischio di perdere di vista la conclusione (fosse anche solo temporanea) alla quale avrebbe voluto arrivare.
Ivan (Grègoire Colin) è un soldato, se così lo si può chiamare, figlio di questi tempi trapelanti una tecnologia sempre più intrusiva, che si frappone tra gli individui impedendo tanto un loro incontro quanto una collisione: infatti, nella storyline che forse si può considerare la più vicina alla realtà, Ivan elimina le sue vittime da una postazione lontana indefinibili chilometri, limitandosi a manovrare leve e a premere pulsanti fino a quando una voce metallica che fuoriesce dai suoi auricolari non proferisce la parola “contact”, a conferma dell’impatto avvenuto e della disintegrazione del nemico.
Ma nonostante questi strumenti che si ostinano a raffreddare il calore sprigionato dall’impatto di due corpi, non per questo la nostra umanità viene annichilita, e così, una volta appreso di aver ucciso dei ragazzini, Ivan cadrà in uno stato di profonda alienazione e di chiusura in se stesso, ed è da questo momento in poi che Full Contact porta avanti più filoni narrative, fra le quali si ha difficoltà a stabilire una qualche connessione, ammesso che questa ci sia: accanto a quello già citata e che presenta Ivan svolgere i suoi obblighi militari e poi intrecciare una relazione con la spogliarellista Cindy (Lizzie Brocheré), troviamo uno che lo raffigura completamente solo in un ambiente arido e disumanizzato (la natura onirica di questo filone è abbastanza tangibile), ed infine quello che lo vede lavorare nell’ufficio bagagli smarriti e gettarsi nella disciplina sportiva denominata full contact, derivata dal karate e che a rispetto a quest’ultimo richiede un maggiore contatto fisico tra i combattenti. Il disorientamento dello spettatore deriva dal fatto che i personaggi incontrati nel primo filone ritornano anche negli altri due, costretti in vesti e calati in ambienti differenti (emblematico è il caso di Cindy, che ritorna come collega di lavoro di Ivan nell’ufficio). Un’operazione del genere può risultare artificiosa, ma sotto un certo aspetto si rivela funzionale alla veicolazione di un messaggio ben preciso: i bersagli umani uccisi dall’Ivan soldato tramite la sua postazione di comando ritornano sia nell’ambiente desertico che nella palestra dove si allena, e se per quanto riguarda il primo caso quel che è da porre in rilievo è il modo in cui sono nuovamente eliminati (cioè con l’ausilio di un arma da fuoco: già un avvicinamento all’altro rispetto all’incomprimibile distanza della cabina rispetto al diserto del Nevada), nel secondo la svolta è ancora più radicale. Infatti non solo i due duellanti aderiscono l’uno all’altro in un vero e proprio corpo a corpo, ma dopo che Ivan si è ripreso dalle forti percosse inflittegli dalla sua ex vittima, quest’ultima sembra quasi abbracciarlo: e se consideriamo che è questa l’inquadratura che chiude Full Contact, un’interpretazione pacifista del film di Verbeek è quanto meno avvalorabile.
Servendosi di molti primi piani e riprese paesaggistiche lungo cui l’occhio corre inarrestabilmente, il regista olandese opta per una sceneggiatura scandita da molte pause e lunghi silenzi, e nella quale le poche parole scambiate diagnosticano una grave forma di incomunicabilità.
E’ un peccato che con premesse così varie ed interessanti (il potenziale manipolatorio della tecnica, il reinserimento nella civiltà dell’uomo-soldato, il contatto, sia amichevole che ostile, disperatamente ricercato) non si sia stati in grado di dare forma ad un’opera più solida e meno impersonale: l’impressione che rimane di Full Contact è quella di un film che per rendere suggestivi e affascinanti i vari scenari che mano a mano struttura, perde di vista il suo obiettivo, non riuscendo né a trarre una qualche conclusione né a sollevare interrogativi precisi e provocatori. Si potrebbe dire che soffre dello stesso smarrimento da cui è afflitto il suo protagonista.
Ginevra Ghini