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Mistress America

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VOTO: 7.5

La Grande Mela e il verme

Pare un po’ un ritorno alle origini, questo Mistress America presentato nella Sezione Ufficiale della decima edizione della Festa del Cinema di Roma. Quando Noah Baumbach esordiva, nel lontano 1995, come regista e sceneggiatore della commedia post-giovanilistica Scalciando e strillando. Essendo nel frattempo esponenzialmente cresciuto come autore rispetto all’opera prima, risulta ben chiaro come nella sua ultima fatica il regista di Greenberg abbia alzato notevolmente il tiro. I personaggi principali di Mistress America sono giovani e meno giovani, questo è innegabile. Ma la difficoltà di iniziazione alla vita – che può colpire a venti, trenta e persino a sessant’anni – è in assoluto un problema che riguarda tutti, ad ogni età. E su questo tema, come suo solito, Baumbach imbastisce un piccolo teatro intellettuale che, sotto una patina di divertimento intelligente, nasconde invece sofferenze profonde nonché ferite difficilmente rimarginabili. Osservato in tale ottica Mistress America è un romanzo – letteralmente, visto che una delle due protagoniste ambisce a scrivere di narrativa – di formazione lucidissimo e con pochi precedenti nel cinema più o meno contemporaneo. L’aspetto di commedia “da botteghino” caratterizzata da un montaggio trascinante, da una colonna sonora molto trendy e orecchiabile, dalla sapidità estrema di battute senza soluzione di continuità e dalla messa in scena di situazione al limite del paradosso è solo un’esca, una finta “captatio benevolentiae” che porta lo spettatore ad imboccare una strada che si rivela poi essere senza uscita.
Mistress America poggia su due personaggi femminili che nelle prime battute del film paiono artatamente costruiti in sede di sceneggiatura – peraltro opera dello stesso Baumbach e dell’attrice Greta Gerwig, sua attuale musa nonché compagna di vita – ma che sequenza dopo sequenza diventano più autentiche della realtà maggiormente tangibile. Gran merito, ovviamente, va alla fenomenale Greta Gerwig già ammirata in Frances Ha, ancora per la regia di Baumbach, e all’efficacissima Lola Kirke, assurta a notorietà per il ruolo principale nel delizioso serial televisivo Mozart in the Jungle. Qui sono, rispettivamente, Brooke e Tracy: la prima è una trentenne piena di spirito d’iniziativa ma ancora indecisa su da farsi nella propria esistenza; la seconda una matricola universitaria con velleità di scrittrice. Si incontrano perché, nell’apologia dell’assurdo che pervade Mistress America, dovrebbero diventare sorellastre a causa del secondo matrimonio dei loro genitori; si piacciono subito perché entrambe devono ancora definire un quadro nitido sui cosiddetti “massimi sistemi”. Poi si separano bruscamente poiché Brooke si sente tradita dalla visione che Tracy ha di lei a seguito di una (parziale) lettura di un racconto di Tracy ispirato proprio dalla figura di Brooke stessa. Infine si riuniscono, forse in modo definitivo, quando comprendono che l’America (da cui il titolo) di oggi corre, anzi vola, in una direzione che non prevede l’attesa di chi rimane indietro. E, cedendo il passo, è meglio essere in due che da soli.
Mistress America racconta proprio questo: un affresco in apparenza minimalista, volto in chiave di raccontino morale, sulla complessità estrema dei rapporti interpersonali e della missione, per qualcuno quasi impossibile, di trovare un proprio spazio nella vita. Il fatto che in Mistress America si sorrida e si pianga dentro e fuori lo schermo fa dunque parte del gioco: il gioco di quella infinita commedia umana che vede Noah Baumbach del tutto immedesimato nel ruolo di uno dei suoi più sensibili narratori cinematografici. Si potrà poi discutere di atmosfere e citazioni già viste in altri film, con la Manhattan di Woody Allen a fare la parte del leone ma anche di certe commedie anni ottanta screziate di problematiche sull’adattamento giovanile, recuperando alcuni titoli di John Hughes come Breakfast Club e Una pazza giornata di vacanza per capire meglio il senso del discorso intavolato da Baumbach. Il fatto certo è che determinate cose cambiano e molte altre no. Ed è lì che risiede la riuscita di un’opera come Mistress America; che è altro, molto altro, da quel che può sembrare ad un primo sguardo.

Daniele De Angelis

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