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Una pazza giornata di vacanza

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VOTO: 10

Salvate Ferris

Se vi dovesse capitare di sfogliare uno dei qualsiasi dizionari del cinema a firma più o meno illustre pubblicati in Italia, il giudizio su Una pazza giornata di vacanza, film che il recentemente scomparso John Hughes girò nel 1986, risulterebbe praticamente intercambiabile: una commedia giovanilistica divertente, ben scritta e girata ma senza troppe pretese, con un paio di stelline (su quattro) all’incirca di valutazione media.
Dunque. E’ innegabilmente vero che Ferris Bueller’ s Day Off – questo il titolo originale della pellicola – sia una commedia. Che poi la si consideri una delle migliori sceneggiature mai scritte nell’intera Storia del Cinema (oh, yes!), con un ritmo che ha la precisione di un cronometro svizzero, senza pause o la benché minima caduta di stile, ed una regia capace di assecondare alla perfezione i tempi della trama, questo può rientrare nella visione soggettiva di chi scrive. Altrettanto corrispondente a verità è l’ambientazione diegetica nell’universo tardo adolescenziale. Avevamo avuto occasione di farvi cenno allorquando abbiamo scritto il triste articolo di commiato per la morte di Hughes: Ferris Bueller’s Day Off rappresenta la chiusura di un cerchio, di quella sorta di accuratissima esplorazione del mondo adolescenziale iniziata dal cineasta di Lansing con Un compleanno da ricordare (Sixteen Candles, 1984), proseguita con Breakfast Club (The Breakfast Club, 1985) e La donna esplosiva (Weird Science, 1985). I primi amori, le prime pulsioni sessuali, l’inizio della consapevolezza nei confronti di se stessi; tale percorso giunge a compimento felicissimo proprio con Una pazza giornata di vacanza. Quello che si “tralascia” di affermare è la complessa stratificazione della poetica che il cantore John Hughes ha dedicato, nei primi quattro film della propria purtroppo esigua filmografia, all’universo di riferimento. Ciò che appunto rende grande, grandissima l’opera quarta di Hughes risiede infatti proprio nel talentuoso processo di dissimulazione che egli mette in atto; dietro il suo film in apparenza più scanzonato, vario e spumeggiante si celano ancora una volta tutte le critiche all’autorità precostituita (simboleggiata dalla scuola, of course, ma non solo…), alla tentazione dell’omologazione da parte dell’istituzione (l’impagabile preside Ed Rooney, tanto goffo quanto “minaccioso”), alla brutale separazione tra microcosmo giovanile e macrocosmo adulto, più evidente in senso drammaturgico in Breakfast Club ma altrettanto presente e passionalmente sviscerata in Una pazza giornata di vacanza soprattutto attraverso l’inquietante figura – non a caso completamente invisibile nel film, solo evocata nella sua “immanenza” di genitore padrone – del padre di Cameron Frye, il recalcitrante compagno di avventure del protagonista Ferris Bueller.
Se riuscire a girare un film clamorosamente divertente è tutt’altro che impresa da poco, il fatto di abbinarci anche un’inconsueta profondità ne rende il valore pressoché assoluto. Se a tutto ciò aggiungiamo che Ferris Bueller’s Day Off, girato ricordiamo in un periodo in cui gli Stati Uniti erano in piena era edonistico-reaganiana, con lo status di mera apparenza a primeggiare sul resto, è pure un film dalle tanto enormi quanto abilmente sottese istanze politiche e sociali, ecco che lo status di capolavoro rimane davvero impossibile non attribuirglielo.
Per coloro che non avessero visto il film in questione, lo spunto narrativo de Una pazza giornata di vacanza è, in pratica, un giorno di sega a scuola. Ferris Bueller (interpretato da un perfetto Matthew Broderick), studente alla fine del liceo, è la leggenda del liceo, l’amico di tutti: vista la bellissima giornata a Chicago decide di pianificare, nel senso letterale del termine, una giornata extra-scolastica. Smuove l’amico Cameron (Alan Ruck) dal suo stato di ipocondria totale e, con una stratagemma, fa evadere – letteralmente – la fidanzata Sloane Peterson (Mia Sara) dalle lezioni. Convinto nel frattempo Cameron a “prendere in prestito” la lussuosa Ferrari che il di lui genitore (vedi sopra) praticamente tiene sotto teca, insieme si dedicano al divertimento ed alla pazza gioia in quel di Chicago, da sempre location favorita del cinema di Hughes. Il problema è però che il preside della scuola (impersonato da un ottimo Jeffrey Jones), fermamente intenzionato a cogliere Ferris con le mani nel sacco per fargli ripetere l’anno, si mette sulle loro tracce…
Paradossalmente Ferris Bueller’s Day Off può risultare talmente irresistibile nel suo grado di “lettura primaria” da correre il serio rischio che lo spettatore entusiasta possa fermarsi ad esso. Sia l’ambientazione scolastica che quella alto-borghese familiare vengono presentate da Hughes in una chiave eccezionalmente ironica, in grado di infliggere ad esse autentiche stilettate con il sorriso sulle labbra. Già nell’iniziale montaggio alternato tra liceo (dove Ferris avrebbe dovuto essere…) e letto di casa (dove Ferris giace simulando una malattia inesistente…) si consuma la “tragedia” di un mondo ridicolo, quello degli adulti, quasi alieno nella sua totale incomunicabilità con quello dei “figli”. I professori – e Hughes arruola, per l’uopo, in un folgorante cameo nientemeno che Ben Stein (l’insegnante del leggendario appello “Bueller, Bueller, Bueller…“), nella vita reale consigliere economico repubblicano a servizio sia di Ronald Reagan che di Bush padre; chiaro il discorso? – si perdono in lezioni di una vacuità sconcertante, mentre i genitori, meravigliosa coppia di “ingenui/idioti”, di Ferris vengono fatti fessi dal figliolo con una facilità disarmante. John Hughes all’epoca ha trentasei anni, ma evidentemente ha qualche sassolino da togliersi dalla scarpa. Affilate schegge di cattiveria ironica, mentre il teen-ager gode…
Ma come far scattare ulteriormente tutti i meccanismi identificativi nel pubblico giovane nel fisico o nello spirito? Semplice, chiamandolo direttamente in causa. Se il cinema classico hollywoodiano vedeva lo sguardo in macchina come imperdonabile errore tecnico, per Hughes la cinepresa è un mezzo per raggiungere il suo pubblico: così Ferris si appella ad esso senza mediazioni, con esilaranti battute ed impagabili motti, tipo quello in cui illustra i tanti modi per convincere i genitori a lasciare il figlio a casa da scuola, simulando spassosi problemi di salute. Pura modernità teorico-cinematografica “in maschera”.
Una delle potenziali trappole nella quale poteva scivolare Una pazza di giornata di vacanza era invece quella di rendere il personaggio di Ferris troppo “vincente” e quindi un poco antipatico non solo agli occhi dell’invidiosa, almeno sino ad un certo punto, sorellina Jeanie. Invece nella finzione Ferris cresce grazie anche al rapporto con il suo amico Cameron (bravissimo nel ruolo il quasi inedito Alan Ruck), che rappresenta il suo esatto opposto: insicuro, perdente in partenza, timido ed impacciato con le ragazze nonché afflitto da serissimi problemi di rapporti in ambito familiare, principalmente con il padre. E, di certo ancora una volta non casualmente, è a lui che Hughes dedica i momenti più intensi della pellicola: il lungo sguardo alla ricerca di qualcosa che sfugge (o è irrimediabilmente fuggito…) nel dipinto di Georges Seurat La Grande-Jatte al The Art Institute di Chicago oppure il monologo finale – che segna la sua uscita di scena – a distruzione più o meno involontaria della Ferrari del padre avvenuta. Magari qualche fan della casa di Maranello l’avrà presa male, però assistere alla riaffermazione di quelli che dovrebbero essere gli autentici valori affettivi a scapito della sublimazione dell’effimero e della venerazione del lusso, è una sottolineatura – tutt’altro che didascalica nel film – che dovremo tenere sempre ben presente, a maggior ragione nella desolante Italia contemporanea.
Il consiglio, al tirar delle somme, è quello di vedere o rivedere periodicamente Ferris Bueller’s Day Off anche solo per godere degli ininterrotti momenti di culto ivi contenuti (dimenticavamo, c’è anche – oltre ad una declinazione pressoché completa di tutti i sottogeneri della commedia, dalla slapstick a quella sofisticata –  una deliziosa parentesi squisitamente musical).  Ma soprattutto di farlo scoprire alle nuove generazioni; perché è uno dei pochissimi film mai realizzati capaci di farvi slogare la mascella dalle risate e contemporaneamente aprirvi davvero la mente a nuove prospettive e orizzonti. Una cosa che solo a pochi, pochissimi autori nel mondo del cinema è compiutamente riuscita. E John Hughes è tra loro.

Daniele De Angelis

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