Learning to Live
Su Frances Ha il quesito critico è pressappoco amletico: stimolante, nonché appagante, oggetto cinematografico per cinefili – e soprattutto cinefile – oppure film manierato sino all’eccesso nel suo sterile citazionismo? Vari elementi fanno propendere la bilancia verso la prima ipotesi, pur ammettendo che il lungometraggio in questione – sesta fatica registica di un autore ormai da molti ritenuto di culto come Noah Baumbach – si muova su un crinale piuttosto sottile.
Già la scelta del bianco e nero rappresenta un’esplicita dichiarazione d’intenti, capace di mettere sull’avviso i dubbiosi ed esaltare gli appassionati. Di certo il film è ricercatamente arty, del tutto alternativo se si pensa al circuito commerciale. Guarda al Woody Allen di Manhattan senza la contemplazione estatica di New York e la sfilata empatica di personaggi. Omaggia dichiaratamente Truffaut e l’intera Nouvelle Vague, da sempre punto di riferimento fisso del cinema di Baumbach. E le ripetute (troppo?) corse e balli a perdifiato – riprese peraltro attraverso morbidi ed efficaci carrelli laterali – del personaggio femminile del titolo sulle note di Modern Love di David Bowie non possono non ricordare il cinema libero da vincoli di Leos Carax, con il suo protagonista “fantasmatico” Denis Lavant, alla lontana imparentato con la Greta Gerwig di Frances Ha. Però, appunto, nel film di Baumbach c’è Greta Gerwig, la quale ha pure cosceneggiato il film assieme al regista. E la cosa si percepisce con estremo nitore. La sua Frances conquista l’attenzione di chi guarda al di là di ogni possibile immaginazione. Un coacervo di contraddizioni più o meno fisiche ed esistenziali che aspira la vita di ogni giorno con la massima naturalezza possibile. Allampanata e perciò inesorabilmente ancora più goffa di quel che è, cerca l’utopia nell’arte del balletto e nell’amore perfetto, scorgendo i due traguardi alla stregua di miraggi lontanissimi. Logorroica il più delle volte senza senso compiuto, prova ad affabulare il prossimo mediante discorsi privi di un inizio ed una fine ben definiti. Ha un’amica del cuore, la quale poi prende le direzioni che il sentimento le suggerisce, mentre Frances, in questo senso, è del tutto stanziale. In compenso cambia domicili a velocità vertiginosa. E il film si adegua, suddividendosi in capitoletti scanditi dai suoi indirizzi residenziali.
L’imperfezione, l’inadeguatezza alla vita di Frances è la nostra. Una fase di passaggio in cui l’identità non si è ancora formata e si passa il tempo, il prezioso tempo che non tornerà, a cercare di capire chi siamo e cosa diventeremo. Frances è simbolo universale, piccola stella alla ricerca di un cielo qualunque che voglia e possa accoglierla. La sensibilità della regia di Baumbach, stavolta, risiede in una semplicità sia pur eccezionalmente stratificata. Non più credibili, proprio perché travagliati, rapporti famigliari come accadeva nel bellissimo Il calamaro e la balena (2005), “gioco al massacro” intellettual-borghese dove i figli venivano colpevolmente usati come pedine di guerra tra i genitori e perciò destinati a pagare un prezzo altissimo. O anche il disordine interiore di una generazione – quella quarantenne del personaggio di Ben Stiller ne Lo stravagante mondo di Greenberg (2010) – totalmente incapace di compiere il grande salto dalla giovinezza all’età adulta. Ed in fondo, a pensarci bene, Frances Ha potrebbe essere considerato una sorta di metaforico, leggiadro prequel di Greenberg, con ancora la magica Greta Gerwig – presente in ambedue le pellicole – a fare da anello di congiunzione. Perché crescere, alla fine, è davvero il “mestiere più difficile del mondo”, come la stessa Frances annuncia al partner e alla platea nella esilarante sequenza in cui vorrebbe offrire la cena al proprio accompagnatore maschile ma la sua carta di credito non funziona. “Non sono ancora una persona adulta” dice, fuggendo alla ricerca disperata di un bancomat. Saprà diventarlo? La risposta è affidata alla singola individualità di ogni spettatore, chiamato bonariamente ad interrogarsi sul proprio e altrui posto nel mondo. Frances Ha resta comunque un’operina variamente interpretabile dal punto di vista critico, ma alla quale non si può negare una leggerezza di fondo capace di far, se non innamorare, quantomeno scaldare il cuore.
Una merce davvero molto rara, in questi tempi di omologazione generale a cui purtroppo anche il cinema – e ciò che gli gravita attorno – non riesce a resistere.
Daniele De Angelis