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Masterclass con Roberto Andò

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Il regista siciliano si è raccontato al pubblico del Bif&st 2019

Roberto Andò ha sempre spaziato tra i vari linguaggi e la masterclass che ha tenuto alla decima edizione del Bif&st è stata una preziosa occasione per ripercorrere il suo percorso professionale, apprendendo tante chicche e dietro le quinte (anche sui set più prestigiosi dove si è formato), ma sempre con uno sguardo molto lucido sul nostro oggi.
L’incontro, condotto dal critico Enrico Magrelli, è avvenuto giovedì 2 maggio dopo aver riproposto al pubblico del festival l’ultimo lungometraggio presentato fuori concorso alla 75esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Una storia senza nome. In questi giorni è in scena al Piccolo Teatro Strehler di Milano “La tempesta”, da lui diretto, con Renato Carpentieri nei panni di Prospero e una compagnia di qualità costituita da Vincenzo Pirrotta, Filippo Luna, Giulia Andò, Paolo Briguglia, Paride Benassa, Gaetano Bruno e Fabrizio Falco (produzione Teatro Biondo di Palermo). La conversazione ha preso il via proprio da questo progetto.

Enrico Magrelli: Perché hai deciso di lavorare su quest’opera e come ti sei approcciato?
Roberto Andò: È uno di quei testi che si inseguono per tutta la vita. In particolare, quando ho realizzato, Il manoscritto del principe, mi rapportai con un attore immenso come Michel Bouquet e per spiegargli come incarnare il principe gli parlai di Prospero. Questi è un sovrano, come sempre avviene in Shakespeare, pieno di dubbi, in attesa di tornare ad agire e forse incapace di farlo. È una persona ingombrata dalle sue riflessioni perché ha letto troppo. Ne “La tempesta” è importante come viene affrontato il rapporto tra le generazioni, Miranda è il pretesto di tutta la commedia in quanto il padre vorrebbe darle un futuro ed escogita la sua uscita di scena anche in questa prospettiva. Con Renato abbiamo asciugato e reso contemporaneo questo ruolo, il nostro lavoro è quello di riportare al pubblico di oggi il senso di parole che sono classiche proprio perché ci hanno riguardato, ci riguardano e riguarderanno. In questo caso vengono messi in moto tanti aspetti, è una di quelle opere grazie a cui si riesce a comprendere una crisi, un mondo che vuole salvarsi e il complotto del potere perché Prospero è un uomo che ne è stato privato.

E.M: Nei tuoi lavori c’è tra le ossessioni proprio quella nei confronti del potere. Potresti approfondire?
R.A.: Viviamo in uno strano tempo, dove vengono annunciate false rivoluzioni, promesse che non vengono mantenute; però si vive in un’attenzione di linguaggio che vorrebbe star dentro questa possibilità. Mi ha sempre affascinato il potere colto nel momento in cui riflette maggiormente la sua impotenza. Coloro che sono al potere oggi hanno questo senso di fine e non lo sanno; mentre altri, come Charles de Gualle, possedevano questa consapevolezza. Chi ha una conoscenza del mondo può articolare meglio la propria sensibilità. Ai giorni nostri c’è un aspetto illusionistico della politica di oggi che non vuole altro che mantenere il potere per il potere.

E.M: In Viva la libertà (2013) e ne Le confessioni (2016) viene declinata in due modi totalmente differenti l’impotenza di cui parlavi…
R.A.: Nel primo (tratto dal libro scritto dallo stesso Andò “Il trono vuoto”, ndr) era in gioco un’idea di sinistra che in quel momento sembrava potesse ancora rigenerarsi. Viene messo in scena un discorso all’interno di un partito, come potrebbe essere quello democratico, e la figura principale è quella del segretario – raramente affrontata in letteratura. Non mi sono ispirato a nessun personaggio esistente, però vedevo nella realtà che stavamo vivendo la difficoltà di assumere una consistenza, una voce da parte di chi allora deteneva le redini e soprattutto riconoscevo che i segretari di partito stavano per scomparire. Ho immaginato una storia classica, il nostro uomo sa di andare incontro a una sconfitta, è depresso e a un certo punto si eclissa pensando di prendere una boccata d’aria. Nella nostra storia si assiste a un’escalation enorme che alla fine si conclude in maniera interessante rispetto al romanzo. Il cinema ti consente di dare un volto a quello che tra le pagine può essere potenzialmente tutto e nulla. Poter lavorare con un attore come Servillo su due ruoli è stato affascinantissimo. Nel finale, Valerio Mastandrea (interpreta il braccio destro del politico, Andrea Bottini, ndr), che raccoglie lo sguardo dello spettatore, non sa se l’uomo che si trova davanti è il vecchio potere o se il nuovo. Forse noi tutti esseri umani abbiamo al nostro interno un gemello, un potenziale euforico che teniamo a bada, che probabilmente non riconosceremmo mai o magari lo incontriamo nei momenti di grande apertura per poi chiudergli la porta. In quel film è come se sentissi ciò che stesse per accadere. Davo alla politica soltanto una possibilità tragica poiché essa è condannata alla finzione e quindi, nella migliore delle ipotesi, è il vecchio che fa finta di essere il nuovo. Purtroppo è più o meno ciò che sta avvenendo.

E.M: Ne Le confessioni è diverso…
R.A.: Mi piaceva che ci fosse questa figura del monaco, ospite del G8, invitato perché uno dei rappresentanti più autorevoli di questo consesso (Daniel Auteil) vuole confessarsi. I monaci sono lietanti di una vita estrema, tutta giocata sulla privazione, che vivono nel silenzio per gran parte della giornata – a volte per settimane – e che si intrattengono molto con se stessi e con Dio. Nel silenzio si crea un rapporto di sospetto. È un film che testimoniava il momento in cui il potere ha delegato all’economia ogni decisione perché non era in grado di prenderla.

E.M: Qual è il tuo rapporto con gli attori?
R.A.: Io li amo – e non è scontato. Li amo perché penso che bisogna essere grati a delle persone che ci restituiscono la vita come fa un attore. Penso che si stabilisca un dialogo, aprendo degli spazi creativi. Raramente faccio i provini, preferisco vederli in azione – ad esempio quando sono in scena – o mi piace incontrarli a cena per capire come sono quando hanno la guardia abbassata. Per i lavori teatrali ho avuto molto spesso il desiderio di avere non solo interpreti della caratura di Roberto Herlitzka (con cui ha fatto “Minetti” di Thomas Bernhard, ndr) o Renato Carpentieri, ma anche un’umanità di attori “quasi comparse”. Qui viene incontro Fellini, con cui ho avuto il privilegio di lavorare, il quale creava delle tribù che si sono estinte con lui. Lui diceva: «tutti siamo comparse nella vita. Il termine comparsa non è intimidatorio, chi compare è lì in quanto tale perché ha una faccia». A teatro mi è piaciuto lavorare sul fuggevole tramite lo spettacolo tratto da Anna Maria Ortese e altri sette autori tra cui Pirrotta (“Proprio come se nulla fosse avvenuto”, presentato al Napoli Teatro Festival nel 2008, ndr), con cento persone sul palco. Nessuno di loro era un attore ed emergeva la missione del teatro: nasce per metterci in relazione col mondo dei morti. Il fatto che ci sia qualcuno illuminato da una luce, mentre noi al buio ascoltiamo ha a che fare con una trasmigrazione, che può avvenire anche con coloro che chiamiamo comparse. Qualcuno che con la specificità del suo volto, la sua voce, senza nessuna specializzazione ti immette in un tempo diverso. Da questo punto di vista sono molto aperto. Certamente l’attore come Renato Carpentieri è uno strumento straordinario, con cui sai già cosa potrà restituirti con uno sguardo.

E.M.: Appartieni alla categoria di coloro che fanno vedere a un attore il tono o come fare una scena?
R.A.: Mi viene naturale dare l’indicazione, poi aspetto dall’interprete ciò che il personaggio pretende. È un lavoro misto, dove in parte è fondamentale il potersi fermare su un testo, questo è il bello del teatro ed è forse l’aspetto che ripaga maggiormente. Il regista di cinema è creatore a tutti gli effetti perché dà vita a un proprio mondo; quando si lavora per il palcoscenico si è interpreti. Se parti da Shakespeare la prima cosa è leggerlo, ritrovare il senso di espressioni soggette a diverse letture.

E.M.: Hai avuto la fortuna di lavorare con Fellini, Rosi e Cimino, ci porti nel loro backstage?
R.A.: La mia generazione era già controcorrente perché era segnata da Nanni (Moretti, nda), quindi autoriferita, nell’accezione positiva del termine in quanto contestava i maestri e tutti prendevano subito in mano la macchina da presa e giravano i propri film. Io ho compiuto il percorso che sentivo di voler fare e la fortuna è stata quella di cominciare con Rosi – quando avevo diciannove anni – e subito dopo è arrivato Fellini. Mi sono trovato a essere l’assistente di due dei maggiori registi, ma, al contempo, interpreti di una visione totalmente diversa della Settima Arte, ognuno con un rigore estremo. Due set impensabili ai giorni nostri: Cristo si è fermato a Eboli e E la nave va con quest’ultimo che durò 25 settimane di riprese. Oggi non permetterebbero a Fellini di farlo sia per l’immaginazione estrema che per la durata. Per me questo apprendistato è stato come entrare nello studio di un grande scrittore o pittore, non solo ad osservare come fa, ma anche a collaborare con lui. Sento di aver ricevuto come eredità il senso della libertà nel muoversi sul set, con gli attori e con la macchina del cinema. Al contempo ho imparato anche a prendermi dei tempi di pensiero. Era davvero interessante vedere come il funambolo Fellini amministrava genialmente i momenti in cui c’era qualcosa che non quadrava, oltretutto nel rapporto con la sceneggiatura – spesso costituita da tre righe. Attuava un metodo per cui giorno per giorno c’era un aspetto inventivo. Non ho mai visto nessuno con la sua capacità di creare il punto macchina e tutto il movimento della scena, aveva un modo di organizzare le riprese assolutamente unico, riusciva a dare origine a una geometria perfetta in mezzo al caos assoluto. Rosi era un grandissimo professionista esploratore di una drammaturgia civile e politica. Entrambi usavano attori professioni e non.

E.M.: Com’erano i tuoi rapporti personali con loro?
R.A.: Con Francesco Rosi si creò una grande amicizia, ci sentivamo al telefono anche tre volte al giorno. Un maestro e una figura paterna. Ora sto realizzando con sua figlia Carolina, la quale ha preso in mano la compagnia di Luca De Filippo, e sono emozionato perché mi sembra di lavorare con una sorella.
Fellini era un uomo più misterioso. C’era un rapporto affettuoso, ma non siamo stati legati da un’amicizia. Sul set di E la nave va mi volle sempre vicino alla coreografa Pina Bausch, che aveva scelto come attrice ma che temeva avrebbe abbandonato le riprese dopo avere visto il suo particolare approccio alla regia, dato che lei era estranea al cinema. Per una scena le chiese di cantare semplicemente una ninnananna anziché recitare le battute previste.

E.M.: Puoi parlarci anche dei mondi di Cimino e Coppola?
R.A.: Col primo ho collaborato per Il siciliano. Ero molto legato a lui, siamo stati insieme in Sicilia per ben sei mesi, era sempre alla ricerca di location particolari perché il paesaggio era il vero protagonista dei suoi film, come per John Ford. Si era persino studiato le carte forestali della regione. L’ho visto per l’ultima volta a Roma, durante una cena, era già trasfigurato dai vari interventi di chirurgia estetica. «Tu pensi che io stia diventando donna» mi disse. In realtà gli risposi che era semplicemente diverso da come lo avevo conosciuto. Mi rispose: «mi ero stancato del mio fisico». In realtà credo che stesse molto male e che avesse davvero subìto la fine di quel cinema che lui aveva così bene incarnato e che non si faceva più, non ha retto il fatto di non potere più girare.
Francis Ford Coppola mi colpì per la convinzione e il dubbio con cui girava Il Padrino Parte III. Era un regista disincantato, uno che ne aveva viste veramente tante; ma al contempo tanto audace: per una scena sulla scalinata del Teatro Massimo di Palermo, che lui immaginava come una scena d’opera, voleva che dietro la macchina da presa ci fosse Peter Brook ma poi dovette accontentarsi di un regista di routine.

E.M.: Molto spesso nei tuoi film c’è il tema della scrittura…
R.A.: Le mie radici sono nella scrittura. Questo tema si è imposto coi primi lavori volevo raccontare Palermo e un aspetto di questa città, che ha un grande rappresentante intellettuale: Giuseppe Tomasi di Lampedusa, un uomo che ha avuto il destino di essere postumo. Il plot di Sotto falso nome è ispirato alla vicenda di Romain Gary, un grande autore che ha avuto la vertigine degli pseudonimi. Mi piace sempre che la scrittura sia occasione di nascondimento e di rivelazione così come in generale amo i personaggi che non sono quello che appaiono. Probabilmente ciò deriva dalla mia cultura connessa al non detto, mi sembra più stimolante la letteratura che non spiffera tutto ciò che è possibile, ma ti porta anche a lavorare in prima persona per scoprire cosa ci sia dietro le parole. In Una storia senza nome la scrittura è addirittura la protagonista. In un periodo il cui cinema è marginale, mi piaceva che fosse al centro della scena mettendo sullo schermo tutte le fasi, da quella appunto della scrittura a quella delle riprese. Mi affascinava anche l’idea che la settima arte suscitasse degli effetti reali, quando il personaggio interpretato dalla Andreozzi scrive suscita delle reazioni concrete nella banda criminale. L’uomo incarnato da Carpentieri, a sua volta, utilizza il cinema come dispositivo d’indagine. L’idea di questa storia è nata dai racconti dei pentiti che avevano effettuato il furto dell’opera di Caravaggio e lo hanno raccontato nel tempo, scrivendo le proprie versioni, ogni volta evidenziando qualcosa perché in quella circostanza li avrebbe avvantaggiati davanti al giudice. Mi ha molto intrigato come la giustizia è fatta di impostura, non sempre ovviamente. Il cinema è l’unico modo per tentare di dargli una forma, ad esempio noi non sapremo com’è finita la storia di Salvatore Giuliano, ci resta il lungometraggio di Rosi che mette in scena una certa idea del potere e della giustizia. Il quadro di Caravaggio di cui si parla nel mio film è stato oggetto di trattativa con la mafia affinché i mafiosi ottenessero l’alleggerimento del 41bis e lo Stato ne ricavasse che la mafia rinunciava a colpire certi obiettivi. È un’idea assurda, ma è agli atti. In quella vicenda si mescolano aspetti grotteschi ma anche nefandi, come il dato di fatto della bellezza oltraggiata nel nostro Paese.

Roberto Andò ha ricevuto al Bif&st 2019 il Federico Fellini Platinum Award for Cinematic Excellence. «Ad un grande regista, un gentiluomo tanto colto quanto ironico, tanto lungimirante quanto attento e rigoroso. Un intellettuale che ha attinto all’essere siciliano, meridionale, italiano ed europeo la vocazione per un cinema internazionale raffinato ed elegante.
Un autore curioso e intelligente, capace di dare vita a storie rilevanti per il nostro presente, ma al tempo stesso sospese tra le possibilità di un passato tutt’altro che scontato e le memorie di un futuro possibile. Un autore di storie di cui spesso sono protagonisti uomini e donne apparentemente normali alle prese con fatti eccezionali che sono in grado di affrontare e governare. Un regista capace di mutuare dal teatro le dinamiche esistenziali di psicologie talora fragili o messe dinanzi a fatti complicati. Con film come Il manoscritto del principe dedicato a Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Viaggio segreto ispirato a Josephine Hart, Andò mostra il suo gusto per una letteratura raffinata, diversamente sublimata dai suoi notevolissimi ritratti di Harold Pinter e Andrea Camilleri o nel percorso emozionante di Il Cineasta e Il Labirinto e – ancora – nell’ultimo suo film presentato a Venezia, Una storia senza nome. Ma Roberto Andò è anche un raffinato direttore di attori: con Toni Servillo ha dato vita a due storie che hanno colpito il pubblico per il loro essere tra le più lucide riflessioni sulla politica e il potere in Italia ed Europa: Le confessioni e Viva la libertà, un film accompagnato dall’emozione e dall’entusiasmo del pubblico per la politica come dovrebbe essere sempre e che, invece, raramente è stata. Quindi, nel rimettergli il Premio Federico Fellini, non resta che parafrasare quest’ultimo titolo e dire anche noi: Viva la Libertà, Viva Roberto Andò» (dalla motivazione del premio).

Maria Lucia Tangorra

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