Un magnifico (anti)eroe russo, che ne contiene mille altri
«Bigger than life». Persino questa espressione tipicamente anglosassone, venuta quasi a noia per l’uso a volte spropositato che se ne fa, potrebbe risultare limitativa e pertanto vacillare di fronte a un personaggio come Ėduard Limonov, nato Savenko: operaio, scrittore, leader politico, aspirante rivoluzionario, detenuto, vagabondo, maggiordomo, sarto, immigrato, poeta, avventuriero, dissidente per il potere sovietico ma dissidente anche nei confronti di altri dissidenti russi, da lui all’occorrenza sbeffeggiati; in modo caustico e plateale.
Di figure così non se ne sono poi viste tante in giro. Riportando il concetto all’Italia, ci piacerebbe un giorno veder raccontata sul grande schermo la folgorante e al contempo complessa parabola esistenziale di un Guido Keller, tra i sodali di D’Annunzio a Fiume senz’altro il più spericolato ed eccentrico. Nel frattempo ci si può tranquillamente “accontentare” dell’intenso, effervescente biopic che il cineasta russo Kirill Serebrennikov ha dedicato al connazionale Ėduard Veniaminovič Savenko, in arte Limonov, deceduto purtroppo a Mosca nel 2020 dopo aver sconcertato il mondo (e non solo la Russia) con le sue contraddittorie e per certi versi inclassificabili esperienze di vita.
Per onor di cronaca, non è nemmeno la prima volta che ci confrontiamo con la sua figura al cinema: diversi anni fa, quando lo scrittore russo era ancora tra i vivi, il regista Mimmo Calopresti e il giornalista de “Il Fatto Quotidiano” Alessandro Ferrucci gli dedicarono un breve documentario, Cani sciolti – Eduard Limonov, che in pratica si limitava a “sondare il terreno” facendo però emergere alcuni tratti davvero notevoli. Su tutti quel viaggio in Italia, seguito con attenzione dai due autori, che del protagonista aveva messo in luce atteggiamenti non sempre prevedibili e di sicuro paradossali; dal bizzarro apprezzamento per l’estetica del Corviale a Roma, forse paragonata in positivo dal Nostro alla ben più tetra urbanistica di Charkiv, centro industriale ucraino dove aveva trascorso infanzia e primi anni di gioventù; per approdare poi alla commozione sincera mostrata di fronte al luogo del martirio di Pasolini, uno dei più importanti tra gli svariati (e spesso assai distanti tra loro, sul piano politico) punti di riferimento intellettuali, collezionati da un Limonov il cui personalissimo “pantheon” ha accolto nel tempo, con invidiabile disinvoltura, personaggi che potevano andare da Bakunin a Evola, da Stalin a Mishima, da Alain de Benoist a Che Guevara, da Dugin alla famigerata “tigre dei Balcani” Arkan.
Il recente progetto di fare su di lui un film di finzione è nato, però, dallo strumento ritenuto unanimemente più efficace per conoscerne, talvolta ammirarne, talvolta detestarne la così sfaccettata personalità: ossia Limonov, lo splendido libro in cui Emmanuel Carrère non si limita a tratteggiare energicamente il personaggio, ma in parallelo offre uno spaccato impagabile della società russo/sovietica dal Dopoguerra ad oggi.
Talmente impegnativo, il progetto, sia a livello narrativo che “etico”, da aver scoraggiato prima il nostro Saverio Costanzo e poi il polacco Pawel Pawlikowski (che ha comunque partecipato alla sceneggiatura). Ci si è tuffato infine senza remore Kirill Serebrennikov. E a nostro avviso non poteva esserci scelta migliore, considerando anche la capacità del cineasta russo, già ampiamente dimostrata in passato, di infarcire una qualsiasi biografia cinematografica con quegli elementi mitopoietici ugualmente in grado di affrescare un’epoca. O più epoche, come in questo caso.
Forte di un Ben Wishaw in stato di grazia, Limonov di Kirill Serebrennikov si apre allo sguardo dello spettatore come un gioco di scatole cinesi, mostrando con uno stile lisergico e ultra-pop le diverse “età della vita”, una vita decisamente fuori dagli schemi, alle quali il protagonista si è sempre rapportato con un misto di incoscienza, genuinità, irriverenza, sorprendente adattabilità e smodata ambizione: dalla grigia (e perciò in bianco e nero) post-adolescenza nell’URSS di Brežnev al frastornante, coloratissimo giro di giostra, rappresentato dall’esilio negli States, con tutti gli eccessi possibili e immaginabili. Così da approdare al non meno delirante capitolo del rientro in patria, imprescindibile qui il focus sull’audace formazione di un partito di opposizione ribattezzato Nazional-Bolscevico in quanto permeato per metà di acceso nazionalismo e per metà di nostalgie comuniste, con dure esperienze in carcere tra le pressoché inevitabili conseguenze per il nostro mai domo (anti)eroe.
Come nel capolavoro dedicato invece alla trasgressiva parabola rock di Victor Tsoi e dei Kino, Summer, Kirill Serebrennikov dimostra qui di saper trasfigurare i propri personaggi, lasciandoli profondamente umani ma proiettandoli verso il Mito. Pure il ruvido Limonov diventa così (o più semplicemente si conferma) icona Punk, rockstar maledetta della letteratura e della politica, con sullo sfondo una colonna sonora anche stavolta appropriatissima (Lou Reed, rock russo e tante altre intuizioni vi si fondono senza soluzione di continuità) e quelle cangianti scenografie, sempre connotate da un’impronta acida e visionaria; “quinte teatrali” in grado di assorbire e sublimare tanto la Realtà che la Leggenda, siano gli ambienti in questione di volta in volta americani o sovietici, dando vita così a un’indiavolata sarabanda.
Unica nota polemica: nel film non si poteva certo infilare tutto quello che c’è nel romanzo di Carrère, persino una serie televisiva sarebbe stata insufficiente, ma sebbene il lungometraggio non manchi di opportuni e genuini momenti di trasgressione (soprattutto sul versante erotico) può far storcere la bocca a noialtri “puristi del politicamente scorretto” che in sceneggiatura siano stati “epurati” proprio quei momenti della vita di Limonov, dai quali il pubblico occidentale più “progressista” e, in fondo, perbenista, poteva restare maggiormente scioccato. Vedi ad esempio i rapporti con il controverso filosofo nazionalista russo Alexandr Dugin o la discussa partecipazione del Nostro, orgogliosamente schierato coi Serbi, ai conflitti che insanguinarono i Balcani negli anni ’90.
Pur privo di questi accenni Limonov di Kirill Serebrennikov, va detto con pari energia, resta un trip pazzesco, sfavillante, provocatorio, senz’altro in grado di destabilizzare lo sguardo troppo spento, addomesticato del pubblico. E per tutto ciò siamo portati a credere che lo stesso Limonov avrebbe molto apprezzato.
Stefano Coccia