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Summer

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VOTO: 9.5

Sovietic Graffiti

Kirill Serebrennikov è un autore di cui non ci stancheremo mai di parlare bene. Con ancor più convinzione, paradossalmente, se ci si focalizza sul livello di attenzione tutto sommato basso riservato al suo cinema, qui in Italia, dal pubblico maggiormente cinefilo e, fatto persino più grave e inspiegabile, da settori importanti della stampa specializzata. Già nel 2016 ci aveva sorpreso negativamente la reazione poco entusiasta di una parte della critica nei confronti del folgorante Parola di Dio. Speriamo che almeno di fronte alla scossa di energia rappresentata da Summer (Leto) i dormienti si sveglino. Eppure le premesse per creare un caso ci sarebbero tutte, a partire se necessario dall’assenza al Festival di Cannes 2018 – dove il film era in Concorso – del regista, finito agli arresti domiciliari con un’accusa assai dubbia di frode fiscale, associata da alcuni alle posizioni alquanto scomode che Serebrennikov è solito assumere in patria su questioni di politica estera e diritti civili. Non vogliamo certo entrare in ambito giudiziario. Ma se l’alone da film maledetto dovesse servire a qualcosa, ben venga, perché Summer è davvero un meteorite incandescente caduto sull’arido pianeta del cinema contemporaneo portandosi dietro una scia di musiche e personaggi da celebrare o riscoprire, di fiammeggianti mitologie d’oltrecortina, di argute parafrasi politiche, di vertiginose scelte di messa in quadro e di autentici inni alla libertà percepibili sia a livello stilistico che per l’esaltazione di quei momenti di rottura, sopraggiunti nello stile di vita dei giovanissimi al tramontare dell’era sovietica.

Storia di un’alba e di un tramonto, la potremmo definire. E, senza anticipare più di tanto, possiamo annotare innanzitutto questo, e cioè che le date di nascita e di morte dei protagonisti citate alla fine dell’anomalo biopic portato sullo schermo da Serebrennikov paiono sottolineare, a livello simbolico, qualcosa di simile a un requiem: ovvero l’agonia di uno stato sovietico (e di un’ideologia divenuta ostaggio di tetri burocrati) non più in grado di dialogare con le nuove generazioni e con un mondo in continua evoluzione. Emblematiche risultano qui le stranianti scene di concerti rock organizzati nella Russia dell’epoca in teatri dove alle così vibranti proposte di qualche nuova band rispondevano schiere di ragazzi costretti, loro malgrado, ad assistere allo spettacolo con compostezza, senza allontanarsi dal proprio posto e senza agitare cartelli, visto che in quel caso qualche solerte uomo di partito li avrebbe potuti individuare e bloccare. Signore e signori, il rock ai tempi del realismo socialista.
Ma di chi stiamo parlando, in concreto? Si fa qui riferimento a Mike Naumenko, frontman degli Zoopark, e soprattutto al leggendario Viktor Tsoi. Tratti in parte orientali (per la sua ibrida connotazione etnica) e sguardo profondo, a quest’ultimo si deve la nascita dei Kino, uno dei gruppi più dirompenti e rappresentativi degli ultimi anni dell’Unione Sovietica. La loro musica sarebbe stata poi saccheggiata, nel decennio successivo alla tragica morte dello stesso Tsoi, divenuto così icona immortale, per le colonne sonore di pellicole parimenti pronte a tramutarsi in punto di riferimento generazionale, quali sono quelle realizzate a cavallo degli anni ’90 e 2000 dai compianti Bodrov Jr e Balabanov. A ben vedere è una lunga storia di talenti prematuramente scomparsi quella che, da qualche decennio a questa parte, ha caratterizzato lo star system musicale e cinematografico russo.
In leggera differita rispetto al mondo anglosassone e all’Occidente in generale, tali band avevano cominciato sin all’inizio degli anni ’80 a raccogliere le scorie del punk, della new wave, del rock gotico e melodico, riadattando tali impulsi attraverso la lingua russa in una ricetta di grande impatto emotivo, cui appare tutt’altro che estranea nei testi la vena creativa anticonformista e a tratti dissacrante di cantautori come Vysotski. Il trascinante lungometraggio di Serebrennikov proprio a quel clima di grande fermento artistico si riallaccia, in termini di coming of age dalle forti coloriture psichedeliche.

Per chi non ha mai sentito parlare di Machina Vremeni, DDT o Nautilus Pompilius, grandissime band dei decenni passati, tutto ciò riferito alla Russia suonerà un po’ esotico. Ma Zoopark e Kino, grandi protagonisti della scena rock nella città che allora si chiamava Leningrado, sono stati effettivamente in quegli anni vessilli generazionali capaci di catalizzare energie represse, aspettative, dissenso. Kirill Serebrennikov, affidandosi anche ad un nucleo di interpreti sciolti e perfettamente calati nella parte (su tutti Teo Yoo, incredibilmente a suo agio negli impegnativi panni di Viktor Tsoi), ne ha portato sullo schermo le gesta con uno stile sontuoso. Bianco e nero da antologia. Qualche piano-sequenza elaborato ed agile al tempo stesso, in cui una valida derivazione teatrale dei movimenti in scena convive col desiderio di sperimentare comunque con il linguaggio del cinema. E per finire quelle rielaborazioni del musical compiute con graffiante ironia, che, nell’accostare di continuo pezzi delle già menzionate band russe a qualche classico del rock anglosassone (da Lou Reed ai Talking Heads), trasformato per l’occasione in lisergico videoclip di ambientazione sovietica, danno vita a un fecondo, immaginifico cortocircuito culturale.

Stefano Coccia

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