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L’erede

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VOTO: 7

Tassa di successione

Quando ti presenti al mondo intero con una folgorante e potentissima opera prima del calibro de L’affido e nel portfolio potevi già contare su una candidatura all’Oscar per un cortometraggio anch’esso di buona fattura come Avant que de tout perdre, è impossibile quanto inevitabile che le aspettative del pubblico e della critica nei confronti dei tuoi lavori successivi siano alte e direttamente proporzionali al talento e alle capacità che hai dimostrato di possedere. Sarà per il peso di tali aspettative e per ciò che un successo fragoroso come quello ottenuto dal suo film d’esordio comporta, in grado di stregare una platea esigente e dal palato fine qual è quella della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica laddove nel 2017 si è aggiudicato due prestigiosi riconoscimenti (Leone d’Argento per la regia e Leone del futuro), che Xavier Legrand ci ha messo sette lunghi anni per tornare dietro la macchina da presa e firmare la tanto attesa opera seconda.
Un tempo che il pluridecorato regista francese avrà sicuramente trascorso a cercare la storia “giusta”, quella che potesse da un lato permettere alla sua idea di cinema di esprimersi al meglio del proprio potenziale, dall’altro di prendere direzioni diverse e sperimentare qualcosa di nuovo al fine di non ripetersi e provare di conseguenza ad esplorare strade alternative a quelle battute in passato. Opportunità, queste, che Legrand ha a suo parere trovato nel romanzo L’Ascendant di Alexandre Postel, le cui pagine riadattate in collaborazione con Dominick Parenteau-Lebeuf sono divenute il punto di partenza de L’erede (Le Successeur), un provocatorio thriller d’autore in uscita nelle sale italiane con Teodora dal 20 febbraio 2025 dopo l’ottima accoglienza ricevuta al 71° Festival di San Sebastián.
La storia è quella del trentenne Ellias Barnès, un celebre stilista francocanadese considerato dagli addetti ai lavori e dalla stampa “il nuovo principe della moda”. Vive a Parigi ed è diventato il giovane direttore artistico della famosa maison Orsino. Ma proprio nel momento culminante della sua carriera è costretto a tornare a Montréal per i funerali del padre, con cui non aveva più rapporti da tempo. Ellias dovrà quindi andare ad occuparsi di ciò che il tanto detestato defunto ha lasciato – una casa modesta ed i suoi contenuti – e delle sue spoglie mortali. In un crescendo di suspense finirà per scoprire il terribile segreto che l’uomo nascondeva e che segnerà per sempre anche il suo destino.
Già dalla sinossi è facile scorgere quali potrebbero essere – e quasi sicuramente sono stati – i motivi che hanno spinto l’autore a puntare sul racconto di Parenteau-Lebeuf. Partiamo con quello che a una prima lettura ci è apparso come un chiarissimo punto di contatto tra la matrice letteraria e i trascorsi cinematografici del regista e sceneggiatore di Melun. Con L’affido, Legrand ha riflettuto sull’oscura tossicità della vita familiare incarnata da un “mostro” possessivo e collerico, attraverso un excursus sulla violenza domestica di un ex marito verso la propria ex moglie e il loro figlio. In L’erede prosegue dunque tale riflessione spingendosi oltre, affrontando il tema del rapporto padre-figlio in maniera ancora più centrale, ponendo a se stesso e allo spettatore di turno una serie di domande su un argomentazioni complesse, scivolose e purtroppo sempre di stretta attualità: il Male può essere ereditario? La violenza, specificatamente maschile, può tramandarsi di padre in figlio? Può un essere umano, specificatamente maschio, sfuggire al proprio destino biologico e culturale, all’imprinting sociale di un mondo ancora dominato dal patriarcato? Domande le cui risposte in parte sono state affrontate in altri film come lo spagnolo In the City of No Limit e il britannico …e ora parliamo di Kevin, in cui i protagonisti sono chiamati a misurarsi con le conseguenze dolorose del condividere la genetica con un essere capace di azioni terribili e custodi di segreti inconfessabili. Gli stessi con i quali è stato chiamato suo malgrado a fare i conti pure il Ellias Barnès de L’erede.
Legrand dal canto suo pone le stesse domande al fruitore mediante i filamenti narrativi e drammaturgici di un incubo sulle più atroci tenebre familiari, ma cambiando pelle e strumenti a disposizione, che nello specifico sono quelle del cinema di genere. E sta nella strumentazione in dotazione e utilizzata per dare forma e sostanza al plot e alle dinamiche del suo nuovo film che si vede invece il cambiamento nell’approccio alla materia rispetto all’opera prima e alle suddetta pellicole. Quella eretta dal cineasta transalpino è un’architettura ibrida che mescola senza soluzione di continuità gli stilemi, i meccanismi e le atmosfere del thriller, del neo-noir, della favola nera e della parabola tragica. Lo fa facendo propria la lezione di Hitchcock e Fritz Lang ma anche della tragedia classica, riuscendo a inchiodare lo spettatore alla poltrona fino allo sconcertante colpo di scena finale, al quale ci si arriva con un’efficace costruzione e gestione della tensione. Merito della sapiente regia, della fotografia di Nathalie Durand e delle credibili interpretazioni, a cominciare da quella di Marc André Grondin nei panni di Ellias. E se l’attore canadese riesce a restituire l’universo e la tempesta interiore del personaggio che gli è stato affidato davanti al montare di situazioni sempre più scioccanti è anche merito di Legrand, che ancora una volta ha dimostrato di avere nella sapiente direzione degli attori, lui che è attore è stato, uno dei punti di forza. Peccato per alcuni snodi nella narrazione un tantino fragili, che rendono l’ingranaggio mistery meno efficace.

Francesco Del Grosso

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