Nel nome del figlio
Antoine e Miriam stanno per concludere la loro vita coniugale. Uno degli scogli più grossi da affrontare è, come sempre, l’affido dei figli, anche se qui, legalmente, bisognerebbe usare il singolare. Joséphine, la più grande, ha raggiunto la maggiore età, ed è quindi libera di scegliere dove andare a convivere. Il problema ha in realtà un altro nome, ed è il giovane Julien. La decisione spetta infatti al giudice, che deve valutare se è necessario o meno un affidamento congiunto del piccolo.
È il dubbio a essere al centro de L’affido – Una storia di violenza (nella versione originale Jusqu’à la garde), l’opera prima di Xavier Legrand presentata in concorso ala 74esima Mostra del Cinema di Venezia. Il film, sotto l’aspetto narrativo, ricorda molto una delle perle del cinema d’ogni epoca: Shining. Un accostamento a dir poco azzardato, dal momento che si parla di uno dei capolavori del celebre regista americano tratto dal romanzo di Stephen King. Il paragone tra questi due lungometraggi non riguarda assolutamente la qualità complessiva (anche perché difficilmente ci sarebbe partita), ma la struttura del racconto. Se si tralascia il piano sequenza in campo lungo della scena iniziale del film di Stanley Kubrick, entrambi iniziano con una scena particolare, dove è l’assenza di informazioni a dominare. Tutti gli interpreti sono seduti davanti a un tavolo per essere valutati. Non si sa nulla sui protagonisti, non si conoscono i loro trascorsi, ma soprattutto, è ignoto il motivo reale per cui si trovano in quella determinata situazione. Nel caso specifico dell’opera francese, il regista rivolge la macchina da presa in un momento preciso, nel bel mezzo della discussione tra gli avvocati e colei che dovrà decidere la sorte di Julien. Una scelta per nulla casuale, perché costringe lo spettatore a ipotizzare, a ragionare per congetture. Perché si separano? È il marito (o la moglie) la causa di tutto, o si è davanti a una ordinaria richiesta di divorzio? Gli stessi legali, paradossalmente, in alcuni passaggi fanno uso di illazioni per poter vincere la causa. Tuttavia l’autore, seppur in maniera lieve, concede alcuni indizi, non tanto per mezzo del linguaggio, ma dagli sguardi.
Il film gioca proprio sul sospetto dello spettatore, che gradualmente scopre la vera natura dei personaggi e si immedesima nelle paure che provano fino al termine della visione. Dal momento di distacco iniziale, nel quale la lente si focalizza con inquadrature statiche e in campo medio sui soggetti, si passa sempre di più a una regia dinamica che non lascia più spazio a interpretazioni. La tensione è garantita da una sempre più scelta di utilizzo di piani sequenze estremamente efficaci, associate a primi piani che mostrano le varie sensazioni dei personaggi. Tutto ciò non poteva funzionare senza valide interpretazioni. Gli attori mettono la loro parte attraverso una recitazione basata sulla fisicità, dove i corpi diventano espressione di ciò che provano. Spiccano in particolare i ruoli di Antoine e Julien, impersonati da Denis Menochet (Bastardi senza Gloria, Nella casa) e da Thomas Gioria, che rappresentano il vero perno della storia in grado di mantenere la quiete all’interno della famiglia. Da non dimenticare, infine, la tenacia della madre Miriam (Léa Drucker), la quale non perde minimamente il controllo di fronte alle continue difficoltà.
Jusqu’à la garde rappresenta la vera sorpresa della kermesse veneziana, capace di colpire nei punti deboli e a destabilizzare nei momenti più accesi del racconto. Un film che descrive l’impotenza e il terrore, senza minimamente scivolare nel macabro e nel ridicolo.
Riccardo Lo Re