Ritorno alla natura
Un padre. Un figlio. La natura. Un rapporto difficile. La solitudine. La minaccia che incombe. Una sfida personale da raggiungere a tutti i costi. Sono questi gli elementi portanti del film La pelle dell’orso, primo lungometraggio a soggetto del documentarista Marco Segato, tratto dall’omonimo romanzo di Matteo Righetto.
Ci troviamo in un piccolo villaggio delle Dolomiti, negli anni Cinquanta. Domenico è un ragazzino intelligente ed introverso, che – orfano di madre – abita con suo padre Pietro, un uomo solo e scontroso, odiato da tutti all’interno della comunità in cui vive. Tra i due si è creato, da anni, un muro di silenzio. Una notte, la tranquillità del paese viene minacciata da un orso, che, venuto dal bosco, fa strage in una stalla. Gli abitanti, considerando l’animale alla stregua di un vero e proprio “diavolo”, sono terrorizzati. Le cose cambiano quando Pietro, un po’ per sfida, un po’ per sbruffoneria, decide di partire sulle tracce della bestia, chiedendo, in cambio della pelle dell’orso, una grande somma di denaro al suo datore di lavoro. Domenico, abbandonato il villaggio, deciderà di seguire suo padre in questa difficile impresa.
Non di rado – nel corso di quest’anno – ci è capitato di vedere l’uomo sfidare la natura. Abbiamo visto, ad esempio, un impavido Leonardo Di Caprio intento in una lotta all’ultimo sangue contro un orso (giusto per restare in tema) nel pluripremiato Revenant di Alejandro Gonzalez Iñarritu, così come – e qui parliamo di roba di tutt’altra portata – abbiamo visto un uomo impegnato, insieme alla sua famiglia, a buttare giù a picconate un’intera montagna nello splendido Monte, presentato dal regista Amir Naderi Fuori Concorso alla 73° Mostra del Cinema di Venezia. Non proprio degno di nota, ma comunque da annoverare tra i film che trattano un difficile rapporto padre-figlio, con entrambi che vivono a stretto contatto con la natura, vi è anche il recentissimo Abel – Il figlio del vento, maldestro lungometraggio diretto da Gerardo Olivares ed Otmar Penker. Che dire? A quanto pare, all’interno di una società in cui la tecnologia regna sovrana ed in cui sembra quasi impossibile avere tempo per noi stessi e per chi ci circonda, forte si fa la necessità di “tornare alle origini”, di stare a contatto con la natura, di allontanarci, per un momento, dal caos del quotidiano e di riscoprire noi stessi. Molto probabilmente da questi presupposti hanno in parte preso spunto prima il romanzo di Righetto, poi il film di Segato, sebbene quest’ultimo – nonostante i paragoni con i titoli sopracitati – ben poche somiglianze ha con altri lungometraggi – se lo si vuol considerare da un punto di vista prettamente tecnico.
Senza dubbio dietro la lavorazione di La pelle dell’orso vi sono buoni intenti. Si tratta, infatti, della storia di due personaggi che potrebbe diventare anche la storia di ognuno di noi, semplice ed estremamente complessa allo stesso tempo. Tale complessità, però, non sempre è stata affrontata nel modo giusto. Non pochi, infatti, sono gli elementi lasciati in sospeso o mal sviluppati all’interno della vicenda (restano ignoti fino alla fine, ad esempio, i motivi per cui gli abitanti del villaggio provino tanto astio nei confronti di Pietro, oppure, quando si parla della morte della moglie di quest’ultimo, si apre un discorso che sembra non trovare mai una dovuta conclusione), così come priva di una reale svolta narrativa – ma, al contrario, lasciata un po’ a sé stessa – è l’evoluzione del rapporto tra Pietro e suo figlio Domenico. Vista la complessità del tema trattato – l’incomunicabilità con una persona cara – si auspica, in genere, una più profonda indagine psicologica alla base di tutto. Non necessariamente ai livelli di Sinfonia d’autunno di Bergman, ma comunque un impegnativo lavoro sui personaggi – che qui risulta decisamente insufficiente – è del tutto necessario.
Se a tutto ciò sommiamo momenti eccessivamente sopra le righe – quando, ad esempio, Pietro viene aggredito da un gruppo di ragazzini durante una processione di paese o quando è lui stesso a picchiare Domenico solo perché quest’ultimo gli aveva chiesto se avesse fame – potremmo pensare ad un prodotto decisamente malriuscito, senza speranza di salvezza alcuna. Ma, di fatto, non è così. Ciò che, tutto sommato, rende La pelle dell’orso un prodotto discretamente confezionato è proprio la regia, la quale, con un giusto equilibrio tra campi lunghi e primi piani, riesce a farci entrare nel vivo di quell’ambiente inizialmente sconosciuto, contrapponendo in modo magistrale la grandezza di madre natura con la piccola realtà vissuta all’interno del villaggio, che poi, di fatto, è anche la realtà di molti altri villaggi (affascinante, a questo proposito, la resa sullo schermo delle atmosfere di paese, con personaggi veri, intenti nelle loro abitudini e schiavi delle loro stesse credenze).
Considerato, come già accennato, che questo è il primo lungometraggio di finzione – dopo numerosi documentari – diretto da Marco Segato, possiamo ritenere La pelle dell’orso, malgrado le tante imperfezioni contenute soprattutto all’interno dello script, un prodotto tutto sommato accettabile. E, chissà, magari in futuro le numerose potenzialità qui mal sfruttate verranno rese – con una nuova opera – decisamente meglio. Ma questa è un’altra storia.
Marina Pavido