Insane abitudini voyeuristiche
Capita a tutti, si sa, di godersi il panorama guardando fuori dal finestrino durante un viaggio in treno. Quello che capita un po’ meno spesso, invece, è il trovarsi coinvolti – dopo aver osservato per molto tempo la gente incontrata durante il tragitto – in un vero e proprio giallo. Tale esperienza – che, ad un primo, sommario sguardo non può che farci pensare a La finestra sul cortile del maestro Alfred Hitchcock (nessuna illusione: si tratta di qualcosa di completamente diverso) – accade alla protagonista di La ragazza del treno, lungometraggio diretto dall’attore e regista Tate Taylor che già ha avuto modo, negli anni scorsi, di farsi apprezzare dietro la macchina da presa grazie al recente The Help.
Rachel è una giovane donna che, ogni mattina, si reca in treno a New York per lavoro. Devastata dal recente divorzio, è solita osservare dal finestrino una coppia apparentemente felice. Tutto cambia quando, un giorno, vede qualcosa che la sconvolge. Da lì in poi verrà coinvolta in un caso misterioso che, ben presto, si rivelerà molto più grande di lei.
Un film sul vedere, questo di Tate Taylor. Un film in cui osservare e venire osservati porta ad importanti conseguenze. Dagli sguardi, infatti, si dipana la vicenda che vede implicate tre giovani donne, le quali ci vengono presentate inizialmente quasi come delle estranee, ognuna con la propria vita, ma che, in realtà, hanno molte più cose che le accomunano di quanto si possa pensare. Un film in cui, se vogliamo, proprio per l’importanza che viene data all’atto del vedere, forte è anche la componente metacinematografica. Un film che, dall’altro canto, ci dimostra come la realtà apparente possa discostarsi, di fatto, dalla realtà effettiva. Nulla è come sembra: in La ragazza del treno i ruoli si ribaltano continuamente.
Tema centrale: la donna. La donna forte e fragile allo stesso tempo. La moglie, l’amante, la madre. E le violenze contro di lei. Lo script parte inizialmente da un’idea brillante ed accattivante, ma, purtroppo, peccando forse eccessivamente di prevedibilità, non riesce a mantenere la tensione ed i ritmi giusti fino alla fine. Peccato. Soprattutto perché il lungometraggio di Taylor ha fin dall’inizio la capacità di catalizzare l’attenzione dello spettatore rendendo quest’ultimo a sua volta attivo e partecipe osservatore, analogamente a quanto accade alla protagonista. Altrettanto interessante è il raffronto tra le tre donne protagoniste: tre vite apparentemente diverse, tre esistenze a sé, eppure tre personaggi legati inevitabilmente da un filo indissolubile. Anche il rapporto tra le tre – che viene enfatizzato, nello specifico, soltanto verso il finale, quando Rachel osserva una statua rappresentante le tre grazie – avrebbe potuto, in qualche modo – non solo attraverso la sceneggiatura stessa, quanto mediante un raffinato lavoro di regia – essere messo maggiormente in risalto. Altra potenzialità purtroppo scarsamente sfruttata.
Vere peculiarità del lungometraggio sono le ambientazioni – una periferia americana in cui ci si sente terribilmente soli che si contrappone a brevi scorci della vita frenetica nella vicina metropoli – e, soprattutto, la grande prova attoriale regalataci da Emily Blunt, nel ruolo, appunto, della protagonista. Pur dando vita ad una donna alcolizzata, sofferente e con importanti vuoti di memoria, la Blunt è riuscita fino alla fine ad evitare il pericoloso errore di andare sopra le righe. Cosa parecchio rischiosa, se ci si rapporta ad un personaggio come quello di Rachel.
Tutto sommato, malgrado le pecche della sceneggiatura e le potenzialità non sfruttate a dovere, non possiamo negare di trovarci davanti ad un thriller complessivamente godibile e con una buona regia. Nulla di eccezionale, sia ben chiaro, ma, almeno qui, si è saggiamente deciso di mettere da parte la presunzione di voler creare a tutti i costi il film dell’anno, a differenza di molti altri prodotti usciti in sala nei mesi scorsi e di cui, diciamolo pure, avremmo fatto volentieri a meno.
Marina Pavido