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Io, noi e Gaber

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VOTO: 5,5

La grandezza del Signor G… e la pochezza di certi suoi “contemporanei”

Agrodolce, in senso lato, la sensazione lasciata dal documentario di Riccardo Milani, dopo la tanto attesa proiezione alla Festa del Cinema di Roma 2023. Così attesa, sia chiaro, perché un film di oltre due ore su Gaber è un evento a prescindere. Ma alla resa dei conti quello che ci si è trovati di fronte è un qualcosa di intimamente, problematicamente sbilanciato: incisivo e toccante quando il ricordo della grandezza e della complessità del personaggio viene affidata ai filmati di repertorio (strepitosa, in tal senso, la ricerca e la selezione del materiale), oppure quando la parola passa ai suoi più stretti famigliari; molto meno centrato quando altri soggetti di notevole fama ma culturalmente e artisticamente più o meno apprezzabili vengono chiamati a parlare di lui. Del resto, è l’atavico problema del “noi”. E il film in questione si intitola proprio Io, noi e Gaber, fattore non trascurabile poiché al nome dell’artista viene affiancato (oltre a un “io”, che sottende evidentemente il punto di vista dell’autore) quel pronome plurale, che già sembrerebbe sottolineare il grande impatto che l’artista ha saputo avere a livello generazionale.

La mia generazione ha perso”, cantava/recitava un Gaber in combutta per i testi col sodale di sempre Luporini (più rivelatrice di altre, non a caso, la sua articolata testimonianza di tale collaborazione artistica e della loro vicinanza a livello umano). Ed era un’ammissione tanto schietta quanto amara e profonda. Peccato però che a contestarne velatamente la veridicità sopraggiunga oggi un Bersani (sfortunatamente non Samuele, il cantante, ma Pier Luigi, il politico) in atteggiamento da Festa dell’Unità riedizione piddina, con tanto di verace accento emiliano e qualche bottiglia di vino rosso sullo sfondo a fare colore, più intenzionato all’apparenza a millantare presunti, duraturi successi della Sinistra italiana che a dialogare realmente col pensiero dell’artista.
Ecco, il fatto che oltre a Mogol o a Vincenzo Mollica (di sicuro i più calibrati e sinceri del lotto, nel parlarne) siano stati scomodati i “soliti noti”, per le interviste d’ordinanza, crea a volte un filo di irritazione. A partire da un Jovanotti senza il quale, ce lo ha insegnato purtroppo Veltroni, pare non sia più nemmeno concepibile realizzare documentari legati a un determinato immaginario. Andando poi di male in peggio non soltanto con il redivivo Bersani, ma pure coi vari Fabio Fazio e Michele Serra: particolarmente grottesco che siano personaggi come loro, da tempo associati al più grigio conformismo di centro-sinistra, quelli cui viene chiesto di commentare le mirate provocazioni ideologiche, il garbato e al contempo feroce situazionismo, l’innegabile autonomia di pensiero cui ci aveva abituato, il Signor G.
E non intendiamo certo nasconderci dietro un dito: quanto ci è mancato Gaber in questi anni terribili! Quanto ci sarebbe piaciuto ascoltare anche la sua voce, accanto a quelle viziose e stridule di Scanzi o della Lucarelli, in tempi di assolutismo “draghiano”, deliri pandemici, progressismo deviato (lui che con “Quando è moda è moda” ne aveva già intuito in pieno la portata) e disumani decreti governativi!

Però Riccardo Milani è pur sempre il regista delle strepitose commedie Come un gatto in tangenziale (2017) e Come un gatto in tangenziale – Ritorno a Coccia di Morto (2021), fortunato dittico in cui dei radical chic trincerati a Capalbio ci si faceva beffe. Il sospetto che certi personaggi siano introdotti sullo schermo giusto per rimarcare qualche differenza di vedute (volendo pure esistenziale) con Gaber stesso a un certo punto può anche venire. Sospetto che comunque si affievolisce un po’ verso la fine, allorché un iperbolico, immaginifico campo e controcampo mostra, in teatro, da un lato una vecchia e sempre attuale apparizione dell’artista, dall’altro una carrellata di volti comprendente quei personaggi già menzionati più volte…
Lì il contrasto diventa a dir poco stridente. Tanto da averci ricordato, quale discutibilissima e autoreferenziale tendenza del cinema italiano contemporaneo, per intenderci quello schierato pallidamente a sinistra, un paio di recenti brutture: l’inquadratura del tutto gratuita regalata a Emma Bonino nell’altrimenti convincente film di Gianni Amelio, Il signore delle formiche; e soprattutto la pomposa galleria di “dinosauri” chiamati tutti a raccolta da Nanni Moretti per il finale circense di un lungometraggio, Il sol dell’avvenire, che già prima di tale pecionata poteva apparire un requiem ideale (se non addirittura il Jurassic Park, volendo restare in tema) del cosiddetto “cinema di impegno civile”, spesso svuotato nell’Italia degli ultimi anni di orizzonti di lotta reali o, peggio ancora, narcisisticamente rivisitato.

Stefano Coccia

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