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Il Sol dell’Avvenire

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VOTO: 8.5

In questo tramonto

Era il 1989, la fine del blocco, una Roma al tramonto: Michele Apicella urlava invocando la madre, fino a precipitare nell’epilogo con la sua Fiat Uno bianca dentro Circo Massimo. Poi usciva fuori dalla macchina capovolta, guardava in alto, sorrideva: insieme a tutte le comparse della sua vita si protraeva verso un’enorme sfera arancione. Era Il Sol dell’Avvenire.
Più di trent’anni dopo la scena conclusiva di Palombella Rossa, Nanni Moretti torna nel buio della sala insieme a tutte le sue ossessioni, le sue paure, le sue passioni e nella testa questa stessa immagine. Ogni cosa in lui rimane ineluttabilmente coerente, come immutata. Battiato, il PCI, l’amore per il gelato e l’odio per i sabot. Ogni sua espressione rassicura lo spettatore, sussurra “io non sono cambiato”. Nulla è cambiato in Nanni, tutto è rimasto proprio come allora. Tranne il mondo intorno a lui. Il resto delle cose non è più lo stesso. C’è ancora un sol dell’avvenire: stavolta è un pallone sul lungotevere, soltanto a metà.

L’ultimo film del regista romano riunisce un cast devoto con qualche aggiunta (oltre a Margherita Buy e Silvio Orlando, l’esperimento riuscito di Barbora Bobulova) e riprende la grande tradizione metacinematografica del nostro cinema (pleonasticamente notata dai critici a proiezione finita: “maestro, questo è il suo 8½, grazie!”).
Il film che Giovanni regista sta girando è la storia di Ennio e Vera e della sezione del PCI di Quarticciolo durante l’avanzata dei carri sovietici a Budapest del 1956. Il dichiarato intento di riscrivere la storia è palesato fin dalle prime sequenze: nelle sezioni ricostruite di partito non ci sarà nessuna immagine di Stalin, perché Stalin è un dittatore e “io i dittatori non ce li voglio” (nel mio ideale di comunismo). Nello stesso momento, tuttavia, c’è l’impossibilità di continuare le riprese e la produzione è bloccata: Giovanni uomo si ritrova a un bivio artistico e personale del suo percorso.
La narrazione quindi sembra iniziare quello che potrebbe essere un cammino identitario, ma che più va avanti, più si disperde negli intrecci delle trame irrisolte e caotiche dei protagonisti. Non c’è un inizio, né una fine, non c’è un momento catartico: il susseguirsi di eventi è nient’altro che un attimo di sospensione.

Il tempo extradiegetico e il tempo diegetico vengono interrotti, tutto rimane fermo. L’intero film è la rappresentazione tragicomica (più tragica che comica) di quel momento poco prima della fine, dove si cerca disperatamente di ricordare per riaffermare il proprio posto nel mondo. Come del resto faceva Apicella, in quella piscina del 1989, quando gridava “Io sono comunista!”. Ma tutto ciò che inevitabilmente cambia la propria natura – i cinema, i partiti, le persone – rende anacronistica ogni affermazione del regista, chiudendo il percorso su sé stesso. E in tal senso non è casuale che la scena più ripresa all’interno del film sia la sequenza che dà il volto alla locandina francese (in maniera decisamente più iconica di quella italiana). Un Nanni Moretti che prima scopriva il mondo in Vespa adesso è su un monopattino, ma non fa altro che ripercorrere la stessa rotonda, incalzato dal produttore Pierre: “perché giriamo sempre intorno?”.

Le coordinate a quello che è stato cinicamente definito come un pastiche tragicomico allora, più ancora che nella storia e nei personaggi, sono da rintracciare in ciò che Moretti decide di lasciare allo spettatore: non solo un esplicito e sorridente saluto al pubblico (come nella sequenza finale), ma anche un drammatico urlo di sfogo, l’espressione di una perdita. Un ultimo slancio nostalgico e un’ostinata resistenza alla fine.
La fine del mondo come era conosciuto un tempo: la fine della sala, anzitutto. La fine dei piani sequenza e della stagione degli autori – la resistenza contro gli action movie – una resistenza infinita dai toni comico grotteschi contro un giovane regista esaltato dalla violenza “… qui c’è un problema estetico ed etico: la scena che stai girando fa male al cinema!”. La fine di quest’etica tradizionalmente costituita – la figlia che sposa un uomo più grande di lui. La fine delle tradizioni e dei rituali – non mangeremo più il gelato davanti a Lola. La fine del PCI. La fine di un amore. Soprattutto, la fine di questo sentimento di amore – lo urla anche l’attrice al regista “non è un film di politica, è un film d’amore”.
Tutte le azioni eccentriche di Giovanni, la crociata al nuovo cinema, ai suoi rituali, alla sua attrice, ai suoi nemici ideologici e culturali, non sono altro che i movimenti disperati per non ascoltare questa fine, non guardarla, divincolarsi, e procrastinare il momento cruciale in cui bisogna lasciarsi andar via. Ogni gesto che il protagonista compie si disperde in qualche flebile rivelazione – l’incapacità di comunicare, un “ti conosco da sempre, ma non ti riconosco più”. De Andrè accompagna un amore perduto, Mastroianni dispiega le braccia alla fine de La dolce vita: tutto è il richiamo a questo senso di perdita verso ciò che non riusciamo più ad ascoltare, ad amare, o soltanto comprendere.

Ma in ogni gesto del regista il senso di perdita trasmuta sé stesso: Giovanni riparte da questo momento, e decide di cambiare il finale. Non c’è più battaglia, né rabbia, né odio, ma i personaggi danzano sotto la trama di Battiato.
Quella rivoluzione agognata e bramata nell’arco di una vita si farà, ma non sarà più la sua. Essa è il lascito a una generazione diversa che Nanni accompagna sotto quest’ultimo sole.

Silvia Campisano

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