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Intervista a Jeremy Chua

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La nostra conversazione col produttore di Singapore, ospite dell’Asian Film Festival

Al cinema Farnese, nel corso delle così intense giornate del 22° Asian Film Festival, siamo riusciti anche ad avere un’esclusiva intervista con Jeremy Chua, affabile e brillante produttore di Singapore che al festival diretto da Antonio Terminini ha portato ben due titoli, entrambi frutto di co-produzioni internazionali: Ma – Cry of Silence del cineasta birmano The Maw Naing e Pierce della singaporiana Nelicia Low.
Alla fine del festival si può tranquillamente dire che l’impegno e la bravura del giovane produttore siano stati ampiamente ricompensati, considerando che giuria presieduta da Giulio Base ha conferito il Premio per il Miglior Attore ex aequo a Yu-Ning Tsao e Hsiu-Fi Liu, protagonisti per l’appunto di Pierce, mentre come Miglior Film Originale è stato premiato il lungometraggio ambientato in Myanmar, Ma-Cry of Silence, ex aequo con l’indonesiano Tale of The Land.
La nostra amena chiacchierata era comunque avvenuta prima dei premi, per cui con l’energico e simpaticissimo si è parlato soprattutto delle differenti motivazioni che lo hanno spinto a co-produrre i due film.

D: Partiamo proprio da Pierce. Ne abbiamo particolarmente apprezzato l’estetica. Ma come è iniziato il discorso produttivo, considerando che sia la regista che lei, il produttore, siete originari di Singapore, ma il film è ambientato a Taipei?
Jeremy Chua: Direi che è una domanda “politicamente corretta”. Di fondo questo film trae ispirazione dalla società taiwanese. Molti anni fa ci fu un crimine, un accoltellamento nella metropolitana di Taipei. E la regista è rimasta parecchio influenzata da tali eventi, poiché nei confronti del giovane accusato dell’omicidio il fratello minore continuava a sostenere in pubblico che fosse un bravo ragazzo, con lui sempre buono e gentile, praticamente il miglior fratello del mondo; al contrario i genitori del giovane dichiararono che era un pazzo, un assassino nato. Così la regista ha trovato interessante il fatto che lo stesso individuo potesse generare in due persone diverse reazioni diametralmente opposte, una lo descrive come un angelo, l’altra come un demone capace di uccidere. Così una prima ispirazione è arrivata dall’investigare sui risvolti di questo episodio di cronaca taiwanese.
Secondariamente, il film esplora sentimenti adolescenziali espressi però anche in chiave LGBT, il che a Singapore è ancora un tasto scoperto, mentre a Taiwan tutto ciò viene considerato decisamente normale. Perché tra le realtà dell’Asia orientale Taiwan è in materia una delle più progressiste, l’intero discorso LGBTQ+ è accettato nella vita sociale, nei matrimoni, eccetera eccetera, così era più facile per noi esplorare tale contesto lì rispetto a Singapore, dove avremmo potuto incappare in censure governative. Nella società singaporiana è anche possibile raccontare storie in chiave LGBT, ma viene richiesto un profilo più basso, si possono fare solo piccoli cenni rispetto a come si può affrontare l’argomento a Taiwan.

D: Ecco, del vostro lungometraggio abbiamo senz’altro amato il modo di affrontare determinati temi sociali, ma Pierce è anche un contenitore di generi differenti, dal thriller che esplode nella parte finale allo stesso film sportivo. Più in particolare, come si è arrivati a collocare questa storia in un ambiente non così visto al cinema, come la scherma? Da chi è partito questo interesse?
Jeremy Chua: Allora, la regista è stata a sua volta una schermitrice di livello nazionale, che ha poi rappresentato Singapore in varie competizioni internazionali. Dentro di sé ha sempre sentito che in Pierce le tensioni tra i famigliari fossero come un incontro di scherma. Qualcosa di psicologico e di legato all’aggressività. E quindi, per la relazione tra i due fratelli, quello che vediamo non è soltanto un allenamento in pedana, bensì una metafora delle tensioni famigliari pronte ad esplodere.
Nelicia Low ne ha parlato anche col direttore della fotografia e al montatore sottolineando come la filosofia della scherma, in cui si alternano affondi, ripiegamenti e parate, dovesse contaminare anche lo stile del film, con momenti di attesa in cui si costruisce la suspense e repentine esplosioni di energia. Vi è poi l’idea del duello negli accesi confronti tra i due fratelli, o tra la madre e ciascun figlio. Personalmente ho trovato molto eccitante questa forma di storytelling.

D:  Anche noi! Ci piace l’idea del film girato come un duello di scherma… ora però vorremmo spostare l’attenzione su un altro aspetto produttivo. Piccola premessa: la nostra rivista è da anni media partner di CiakPolska, lo straordinario festival del cinema polacco che si tiene a Roma. Non poteva certo sfuggirci, quindi, che Pierce oltre a essere co-prodotto da Singapore e Taiwan vede anche la partecipazione della Polonia, resa tangibile pure da ottimi innesti creativi come ad esempio il compositore delle musiche, Piotr Kurek. Cosa può dirci a riguardo?
Jeremy Chua: Già, tradizionalmente il nostro cinema è portato a stabilire co-produzioni con la Francia, con i Paesi Bassi. Sono queste le classiche collaborazioni. Ma in questo caso sapevamo d’aver bisogno innanzitutto di una fotografia, di una forma particolare. E a livello mondiale il cinema polacco è rinomato per la qualità, per la formazione dei suoi operatori e direttori della fotografia, ce ne sono diversi preparatissimi a livello formale tra cui scegliere. Così rispetto alla Francia abbiamo preferito puntare sulla Polonia, che del resto si sta affacciando bene sul mercato asiatico, personalmente è la seconda co-produzione che porto avanti con i polacchi. La prima era stata Autobiography – Il ragazzo e il generale, co-produzione internazionale con l’indonesiano Makbul Mubarak alla regia. Per Pierce abbiamo trovato in Polonia un ottimo direttore della fotografia, Michal Dymek, lo stesso che ha lavorato sul set di EO, il più recente film di Skolimowski. Assieme a Dymek sono venuti il gaffer, per l’illuminazione in scena, il colorist e naturalmente il compositore della colonna sonora, che è stato citato poc’anzi. Con tutti questi partner polacchi, le riprese effettuate invece a Taiwan, si può dire che sia stata realmente un’operazione multiculturale.

D: Per riallacciarci subito al discorso delle collaborazioni tra tanti paesi, vorremmo parlare un po’ ora anche di Ma – Cry of Silence, ambientato in una realtà ostile e difficile come Myanmar, frutto però di una co-produzione internazionale che ha coinvolto svariate nazioni. Come si è inserita Singapore tramite lei in questo discorso, in questa geografia a dir poco complessa?
Jeremy Chua: Allora, partiamo dalla grande Storia: circa un decennio fa Myanmar (N.d.R.: molti in Italia la conosco ancora come Birmania, Burma nei paesi anglosassoni) si è riaperta per poco alla vita democratica, con la sostituzione dei militari precedentemente alla guida della nazione. Qualche anno prima, nel 2012 se non erro, il regista The Maw Naing viveva ancora lì e poteva osservare dalla finestra le donne della vicina fabbrica tessile e le loro proteste, visto che l’azienda controllata in parte dalla Cina aveva smesso di pagarle. Quelle donne allora avevano cominciato a scioperare, il che da noi può essere normale, ma non lo era certo in un regime come Myanmar.
Così l’autore è stato molto toccato e ispirato dal coraggio di tali donne, che avevano deciso di dire no, dopo che la società in cui vivevano aveva oltrepassato ogni limite. Quando poi si è registrata nel paese una temporanea apertura democratica, The Maw Naing ha cominciato a viaggiare, girando per vari festival anche in Europa, da Udine a Locarno. In questo modo per la preparazione del film ha trovato diversi partner, tra cui me, altri sono in Norvegia, Francia, Qatar…
A quel punto però i militari hanno ripreso saldamente il potere e c’è stato anche il Covid, per cui Ma – Cry of Silence ha cominciato a proporsi meno come film su quelle manifestazioni democratiche del passato e più su come il popolo di Myanmar debba ciclicamente fronteggiare violenze di stato e poco favorevoli ricorsi storici, laddove vi è una evidente simmetria tra quanto facevano i militari negli anni ’80 e quanto hanno fatto in tempi più recenti, una ciclicità che va avanti fino a oggi.
Diversamente dall’Ucraina, diversamente dalla Palestina, Myanmar non ha una collocazione precisa tra Oriente e Occidente, tra le differenti ideologie, geopolitiche, così è facile che venga abbandonata al suo destino, spesso determinato da giunte militari. Lì inoltre è frequente che artisti e attivisti vengano censurati, arrestati, talora anche torturati e uccisi.

D: Siamo d’accordo anche noi sul sostanziale silenzio dell’Occidente. Vi è stata giusto qualche eccezione, vedi un autore tradizionalmente impegnato come Marco Martinelli, di cui possiamo testimoniare tra cinema e teatro un lavoro molto sentito come Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi, sperimentale anche nell’ibridare tra loro linguaggi artistici diversi. Ecco, in Ma – Cry of Silence sembrerebbe che si sia similmente cercato di ibridare la traccia di finzione con un approccio documentaristico, con testimonianze d’archivio. La nostra impressione è corretta?
Jeremy Chua: Le scelte relative alla fiction sono dovute anche alla situazione politica, visto che non potevamo effettuare riprese e mostrare esterni inediti di Myanmar, quindi è stato necessario ripiegare su materiali d’archivio, cercare magari qualcosa sui social per raccontare ciò che lì continua ad accadere anche oggi. Così integrare aspetti documentaristici in un film di finzione è il modo di offrire un contesto più ampio, che abbracci periodo tra le proteste di tanti anni fa e ciò che sta avvenendo adesso.

Non abbiamo potuto fare a meno, infine, di ringraziare Jeremy Chua (e con lui il traduttore del festival, col quale abbiamo interagito) per le risposte così accurate, che ci hanno aiutato ad avere un quadro più chiaro di un’attività cinematografica tanto articolata e intellettualmente vivace.

Stefano Coccia

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