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Il libro di Henry

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VOTO: 5

La vita senza Henry

Qualcuno avrebbe dovuto avvertire i produttori de Il libro di Henry che non necessariamente una narrazione ondivaga fino all’estremo può essere garanzia di originalità. Anzi. Nel caso del film diretto da Colin Trevorrow – al quale ha in tutta evidenza nuociuto il passaggio dagli spettacolari dinosauri in computer grafica di Jurassic World (2015) alle ben più complicate descrizioni di emozioni umane – infatti l’insieme viene affrontato con tale sconcertante superficialità da rendere assolutamente anodini persino i ripetuti cambiamenti di genere che Il libro di Henry affronta.
Già il quadro delle premesse della trama appare oltremodo scontato. Troviamo Naomi Watts calata nei soliti panni di Susan, mamma single costretta in solitudine, il padre non si sa bene che fine abbia fatto, all’educazione dei due figli maschi, l’adolescente Henry e il più piccolo Peter. Se non che Henry, a quasi dodici anni di età, dimostra una maturità da adulto nonché un’intelligenza da genio in pectore. E Il libro di Henry pare proprio, almeno inizialmente, l’ennesimo, innocuo e a tratti divertente, filmetto incentrato sulla figura di un bambino prodigio. Inutile sottolineare come lo spunto della reversibilità dei ruoli in famiglia – Henry che fa da genitore a Susan piuttosto che viceversa – sia sfruttato solamente per proporre innocue scenette famigliari su una realtà ribaltata in cui è Henry a pensare a far quadrare, con ampio margine positivo peraltro, i conti della casa (è anche un esperto di Borsa) e Susan impiegare il proprio tempo libero dal lavoro di cameriera a giocare ai videogame. Anche il rapporto quasi paterno che lega Peter a Henry viene trattato, dalla sceneggiatura opera del carneade Gregg Hurwitz, quasi alla stregua di una normale dinamica famigliare poco degna di qualsivoglia approfondimento. La vita nella finzione scorrerebbe felice, insomma, se non ci fosse di mezzo il sospetto, da parte di Henry, che la sua coetanea vicina di casa e compagna di scuola, graziosa bambina, venisse pesantemente molestata dal patrigno. E siccome i guai non vengono mai da soli ne arriva uno assai più grosso: dopo aver accusato brevi e ripetute emicranie si scopre che Henry ha una massa tumorale non operabile al cervello. Repentino passaggio al melodramma più ricattatorio, spostamento verso una sorta di simil thriller con annesse questioni di coscienza ed infine, in un finale, molto kitsch, la composizione di una nuova famiglia contenente una morale incorporata in cui si legge in filigrana che il Destino – o magari Dio, per i credenti – potrà pure essere talvolta tragicamente ingiusto ma alla fine riporta sempre una parvenza d’ordine morale.
L’unico motivo d’interesse del film, a conti fatti, risiede nella performance del cast minorenne. E visto che la domanda da porsi prevede l’amletico dubbio se i giovanissimi Jaeden Lieberher (in rapida ascesa dopo le prove in Midnight Special del 2016 e nel coevo It) e Jacob Tremblay (ormai quasi un veterano del grande schermo grazie alla partecipazione da protagonista in opere come Room e Somnia, girate rispettivamente nel 2015 e nel 2016) siano o meno all’altezza della nobile e materna Naomi Watts, ebbene la risposta non può che essere affermativa. Il libro di Henry, per un verso o nell’altro, è un lungometraggio che appartiene esclusivamente a loro due, tanto risultano stereotipate le figure adulte. Dispiace però ribadire il concetto che, nonostante le loro valenti interpretazioni, trattasi di film sovranamente inutile. Non brutto, dato che la confezione formale è peraltro rispettabilissima; ma del quale si sarebbe fatto più che volentieri a meno proprio per la totale assenza di una poetica, sia essa riuscita o meno, degna di questo nome.

Daniele De Angelis

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