Tirannosauro regna
Se esiste un modello di cinema che usa il racconto come semplice pretesto per mostrare la spettacolarità dell’immagine cinematografica alla massima potenza è proprio quello dei blockbuster preparati a tavolino. Ovviamente tutta la saga del Giurassico – a partire dal film primigenio diretto da Steven Spielberg nel 1993, non a caso tra i film meno risolti a livello di sceneggiatura dell’autore di E.T. – rientra pienamente nella categoria. Anche in Jurassic World, ultimo capitolo della serie, sarebbe mero esercizio di sofismo andare a cercare sottotesti e chiavi di lettura possibili su di un futuro distopico che ritorna al passato remoto allo scopo di divertire un’umanità regredita allo stato semi-infantile. Sulle multinazionali che antepongono il profitto alla sicurezza e sulle smanie militaresche di gente convinta che l’intera esistenza sia un’infinita guerra da combattere priva di soluzione di continuità. Tutto questo, anche in Jurassic World come in centinaia di altri film di genere e non, c’è. Ma appunto trattasi di stereotipi, luoghi comuni accesi con un semplice bip da un pc incaricato da qualche persona di scrivere la struttura narrativa del film in modalità da pilota automatico. Ciò che conta – nel lungometraggio diretto dal non troppo conosciuto californiano Colin Trevorrow, ad ulteriore testimonianza di come l’imprinting risulti ormai di importanza relativa – è il raggiungimento dello stupore, quello stato di meraviglia capace di far coincidere la realtà della visione cinematografica con lo stato semi-onirico del sogno ad occhi aperti. Questo poiché nemmeno i maligni oseranno affermare che Jurassic World è un film che renda incline al sonno vero e proprio, nonostante le due ore abbondanti di durata.
Il brand, definiamolo ormai tale, anzi alza l’asticella dal punto di vista dell’effetto speciale, come era del resto ampiamente prevedibile. L’idea di affidare a due giovani fratelli – uno adolescente, l’altro bambino – il primo sguardo vergine sul celeberrimo parco a tema costaricense, ormai ampliatosi sino a divenire un’autentica esposizione dell’era mesozoica, è di per sé molto spielberghiana, senz’altro efficace per come riesce a far immedesimare il pubblico al di qua dello schermo. La magia però dura poco, perché gli animali preistorici reclamano, giustamente, le luci della ribalta. La prima parte del film riesce persino a costruire una certa suspense, con il ferocissimo dinosauro ibrido dal dna progettato a tavolino (metafora del film stesso?), tra un tyrannosaurus rex e altri animali e perciò dotato di intelligenza autonoma e superiore, in fuga dal proprio recinto a seminare vittime e terrore. E tuttavia sono solo momenti isolati di un lungometraggio che non può – e non vuole, per ovvie ragioni – abbandonarsi al genere di paura, ma ambisce ad essere soprattutto un racconto educativo per immagini, correndo tutti i rischi di incappare in un didascalismo spicciolo. Lo sbarazzino Owen (il sempre simpatico Chris Pratt) impersona “l’uomo che sussurrava ai dinosauri” e ci ricorda che essi, pur partoriti in laboratorio, vivono, copulano e soffrono al pari del resto della fauna naturale. La responsabile dell’organizzazione Claire, nonché zia dei ragazzi appena menzionati (Bryce Dallas Howard), in apparenza gelida manager, è troppo bella per non recepire il messaggio, quindi s’intristisce di fronte alla morte gratuita di un’altra creatura vittima della furia omicida del suo simile. I personaggi, con in più un Vincent D’Onofrio in pallida versione dr. Stranamore, a ricordarci malinconicamente come sarebbe potuto diventare se non si fosse suicidato a metà di Full Metal Jacket di Stanley Kubrick, sono tutti qui, a farsi vedere quel tanto che serve. Tanto poi arriva l’apocalisse finale, a ribadire ancora una volta come Jurassic World sia solo il regno della computer graphic, con dialoghi a “voce grossa” (improbabili, a dire il vero) e combattimenti tra dinosauri in cui non può mancare il tirannosauro rex a denominazione di origine controllata, colui che risolverà la situazione in perfetto stile Godzilla e alla fine ruggirà sul suo regno rimasto privo – fortunatamente, verrebbe da dire – della presenza umana. Con altri capitoli però annunciati in arrivo.
Chissà se tra duecento anni, quando il cinema tradizionale forse non esisterà più, soppiantato da contesti virtuali che vedranno colui che un tempo era lo spettatore divenire parte più o meno attiva dello spettacolo, questo Jurassic World sarà considerato alla stregua del primo King Kong per quello che ancora quest’ultimo rappresenta agli occhi della nostra generazione. Se così fosse di certo anche queste poche righe avrebbero smesso di avere senso. Sempre ammesso che già ora ce l’abbiano….
Daniele De Angelis