Il mondo (e il cinema) in una stanza
Frutto di una co-produzione tra Irlanda e Canada, in procinto di essere distribuito nel nostro paese dalla Universal, Room era atteso al Festival di Roma dopo un’eccellente partecipazione al Toronto International Film Festival, dove gli è stato tributato anche il prestigioso, significativo Premio del Pubblico. Tale attesa, da parte nostra, coincideva peraltro con una notevole curiosità verso la successiva evoluzione di un autore, Lenny Abrahamson, capace di sviscerare una poetica molto personale sin dai primi lavori cinematografici (Adam & Paul nel 2004, Garage nel 2007), per arrivare poi a sorprenderci ulteriormente col recente e originalissimo Frank. Alla prova del nove possiamo dire che questo detour nordamericano, concepito sulla falsariga di un plot che avrebbe stuzzicato i peggiori istinti hollywoodiani e che il cineasta irlandese dimostra invece di dominare dall’inizio alla fine, non ha fatto altro che confermarne la grande maturità artistica.
Basato su un romanzo di Emma Donoghue (che ha poi realizzato la sceneggiatura del film), Room racconta da angolazioni inedite una di quelle vicende aberranti, ai confini dell’incredibile, che purtroppo tendono periodicamente a ripetersi: il sequestro di una giovanissima da parte dello squilibrato di turno, uomo violento, ossessivo e incapace di costruire un rapporto paritario con l’altro sesso; qualcuno, insomma, che non abbia proprio scrupoli nel tenere una ragazza segregata per anni presso qualche luogo isolato, costringendola con la forza a soddisfare le proprie pulsioni devianti e magari a mettere al mondo dei figli. Anni fa l’opinione pubblica venne scossa dal caso di Natascha Maria Kampusch, la giovane donna austriaca rapita da un sadico di tal fatta mentre era ancora bambina e tenuta quindi prigioniera, fino alla maggiore età, nella stanzetta trasformata in cella da cui, fino alla rocambolesca fuga, non le sarebbe stato possibile allontanarsi. Ma episodi del genere avevano già avuto luogo o si sarebbero poi ripetuti in Europa, negli Stati Uniti, come in altre parti del mondo.
Ciò che però conquista realmente lo spettatore, nel film di Lenny Abrahamson, è la volontà di spingersi oltre gli spunti più morbosi offerti dalla cronaca nera (e conseguentemente oltre quegli stereotipi narrativi cui Hollywood avrebbe attinto a mani basse), per affrescare invece una sorta di fiaba oscura e claustrofobica, in cui la capacità umana di adattarsi alle situazioni più estreme si sposa con un universo affettivo ridisegnato per l’occasione.
Il cielo in una stanza. Letteralmente. Perché assieme alla televisione è il lucernaio posto sulla sommità del capanno dove vengono tenuti reclusi e dove lui stesso è nato, l’unica finestra sul mondo di Jack (clamorosamente bravo il piccolo Jacob Tremblay), il bambino che vive lì con sua madre. Quasi scontato che ne scaturisca una visione della realtà assolutamente unica, non conforme, distorta. Con una lezione di regia davvero impeccabile, nella primissima parte dell’appassionante lungometraggio Lenny Abrahamson fa pulsare di vita quei pochi metri quadri quasi fosse una dimensione parallela dove gli elementi della quotidianità vengono abilmente parafrasati, rapportati cioè al punto di vista della giovane donna rapita (strepitosa anche la protagonista Brie Larson) e più in particolare a quello del figlio, protagonista suo malgrado di un moderno e sottilmente perverso “mito della caverna”, in cui lui a liberazione avvenuta dovrà progressivamente accettare l’esistenza di altre persone, di altri modelli di vita. Ma soprattutto di altri spazi.
La stessa fuga e la tanto agognata libertà vengono raccontate dal cineasta irlandese senza risparmiare sulle implicazioni emotive del caso, che rendono comunque palpabile l’adesione empatica degli spettatori, ma facendo sì che al contempo il climax della narrazione deragli da certe tappe obbligate (l’arresto del “mostro” di turno e l’impatto aggressivo dei media sono tenuti volutamente sullo sfondo, se non addirittura sfumati), per soffermarsi invece su elementi che altre forme di narrativa cinematografica, più sensazionalistiche, avrebbero probabilmente ignorato.
Sottili crepe psicologiche che si spalancano all’improvviso, mostrando quanto sia difficile per entrambi i protagonisti il ritorno alla cosiddetta normalità. Difficoltà iniziali ad “abitare” nuovi spazi e a comprendere stili di vita diversi dal suo, per il piccolo Jack, che in questo appare quasi un novello Kaspar Hauser. E poi quell’incontro più faticoso del previsto coi nonni, con la famiglia d’origine della madre, che non sarà certo l’aberrazione completa imposta loro dal rapitore, ma appare comunque, in un certo senso, una “famiglia disfunzionale”, in quanto pesantemente condizionata dal rapimento della ragazza e dalla successiva, comprensibile separazione dei suoi genitori.
Avvalendosi di presenze robuste nel cast, su tutti Joan Allen e un William H. Macy che anche con poche scene a disposizione riesce sempre a giganteggiare, Lenny Abrahamson costruisce in questa seconda parte una peculiare atmosfera messa poi a profitto, nell’epilogo emotivamente intenso, attraverso la visita dei due protagonisti al luogo che per anni aveva rappresentato i confini del loro mondo. E mostrarlo a loro (e al pubblico) così, in una luce completamente diversa, dimostra come Room sia non solo un’opera carica di tensioni e di sentimento, ma anche una’acuta riflessione sulla gestione dello spazio da parte della macchina-cinema.
Stefano Coccia