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It

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VOTO: 7

Se il “Mostro” si avvicina

Trasporre per il grande schermo un libro di successo è sempre un’operazione rischiosa, soprattutto tenendo conto delle aspettative dei lettori; portare al cinema un capolavoro letterario – perché questo è “It” di Stephen King, detto senza troppe perifrasi – rispettandone l’essenza è impresa da far tremare i polsi. Non a caso, a parte l’affatto disprezzabile mini-serie televisiva diretto da Tommy Lee Wallace nel lontano 1990, ci sono voluti oltre trent’anni nonché una serie di congiunture favorevoli per assistere ad una versione di It in tutti i sensi cinematografica. E forse, in ossequio al testo dello stesso King, anche la scelta di un buon esecutore senza pretese autoriali come l’argentino Andy Muschietti, di suo già esploratore di un composito universo fanta-orrorifico con La madre (Mama, 2013), suona già come dichiarazione d’intenti: libertà creative ma anche massimo rispetto verso il romanzo ispiratore. Così è stato.
Si può far rientrare a pieno titolo un lungometraggio come It in quell’onda nostalgica verso gli anni ottanta – la prima stampa del romanzo è datata proprio 1986 – che sta travolgendo cinema e televisione nel nostro presente. Il successo della serie Stranger Things ha contribuito non poco alla realizzazione di It, al pari dell’influenza per le atmosfere in esso contenute. La percezione di una dimensione malefica appena al di là della realtà conosciuta rappresenta inoltre un tratto comune ai due progetti. I quali ovviamente condividono anche l’universo adolescenziale messo, brillantemente, in primo piano. Eliminando, almeno per il momento (sequel in arrivo…), la parte adulta nella narrazione presente nel testo kinghiano. Le ruote delle biciclette girano allora in modo incessante, il bullismo scolastico ed extra scolastico imperversa nei confronti del cosiddetto “Club dei perdenti” e crescere nelle zone depresse di Derry, Maine per l’appunto negli anni ottanta rappresenta una sfida non da poco. A maggior ragione quando le varie situazioni famigliari si presentano a dir poco disfunzionali, quando non del tutto drammatiche. Un contesto dove ha gioco facile la materializzazione fisica di paure consce e inconsce nella celeberrima figura del clown assetato di sangue Pennywise.
Parecchio a sorpresa, va dato atto a Muschietti e al terzetto di sceneggiatori – comprendente anche il bravo Cary Fukunaga artefice dell’indimenticabile prima stagione di True Detective – di aver calcato parecchio la mano relativamente alla descrizione di una realtà priva di compromessi: l’inferno è già presente di suo senza sconfinamenti nel demoniaco e Pennywise è solo l’ultima escrescenza di un tumore in fase sin troppo avanzata. Probabilmente la tappa decisiva verso la definitiva crescita dei ragazzi protagonisti, tutti peraltro interpretati in modo eccellente. Se l’It versione per il cinema non riesce sempre a cogliere il magico dettaglio dei riti di passaggio come invece avveniva mirabilmente nel romanzo, il film si riscatta in buona parte nella descrizione formale di pertinenza della creatura malvagia. Il cui grado di parentela con il coevo – nell’ambientazione diegetica, ovviamente – Freddy Krueger nell’occasione si fa particolarmente chiara ed esplicita. Non per nulla la casa di produzione New Line Cinema, storica madre putativa della saga di Nightmare (citata nel film con la proiezione al cinema del quinto capitolo della saga), è altresì responsabile anche di questo progetto. Entrambi i bau-bau – con una piccola riserva sull’età dell’attore Bill Skarsgård, efficace ma forse simbolicamente troppo giovane, con annessi e connessi, per il ruolo di Pennywise – agiscono in dimensioni parallele (oniriche e inconsce) pronte però ad interfacciarsi con il reale e tutti e due traggono nutrimento dalle paure altrui, elemento indispensabile che li tiene in virtuale vita. In tal modo anche It, come accaduto nei due film di Nightmare diretti da Wes Craven, riesce a procurare qualche sano brivido non tanto per un abuso del jump scare tanto di moda oggi a mascherare carenza di nuove idee narrative, quanto per un discorso intertestuale sulle difficoltà di crescere in una società che presenta una frattura netta tra mondo degli adulti e quello adolescenziale. Letto in questa chiave It sposa alla perfezione il primo e fondamentale assunto del teen movie alla John Hughes, ovvero la profondità dell’empatia reciproca tra ragazzi come unico strumento di lotta e resistenza nei confronti di un ambiente avverso capeggiato da un’autorità malefica che prova ad imporre le sue regole attraverso un regime di terrore. Difficile perciò definire It un film esclusivamente per adolescenti, vista la componente riflessiva che lo accompagna. Piuttosto, oltre che un lodevole tentativo di trasposizione “impossibile”, un’opera pedagogica – come del resto lo era ampiamente il romanzo – capace di mettere in modo impietoso l’adolescente di fronte alle oscenità del mondo che lo circonda nonché nelle condizioni di comprenderle. Unico modo per superarle? Chissà. Alla sensibilità del singolo spettatore l’ardua sentenza.

Daniele De Angelis

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