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Fremont

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VOTO: 7.5

Un sogno americano

Babak Jalali, cineasta iraniano, dipinge la sua visione dell’America. E lo fa grazie al minimalismo più sottolineato, dimostrando di conoscere alla perfezione il cinema dei cosiddetti padri fondatori della corrente indipendente, in primis il Jim Jarmusch degli esordi.
Fremont, questo il titolo dell’opera, mette in scena in uno smagliante bianco e nero l’esistenza di Donya, traduttrice nativa di Kabul ed approdata negli Stati Uniti proprio grazie ai servigi resi all’esercito del paese che la ospita. La terra delle opportunità? Dalla descrizione del luogo e delle persone che circondano Donya non sembrerebbe. Lei lavora in una fabbrica di biscotti con annesso bigliettino della fortuna, ovviamente di proprietà cinese. Gli altri connazionali – Fremont, in zona San Francisco, è conosciuta come Little Kabul – si arrangiano come possono attraverso lavoretti materiali. A parte l’amica Joanna, collega della protagonista. La quale non riesce a dormire e per questo chiede aiuto ad uno psicologo del posto, un tipo parecchio originale.
Se Fremont – presentato in concorso alla Festa del Cinema di Roma 2023 – si è rivelata opera godibilissima lo si deve in particolare a due fattori. Il primo è l’acuta descrizione del personaggio principale: Donya (eccellente l’interpretazione di Anaita Wali Zada nella sua apatia quasi confinante con la catatonia) ha un background di grande sofferenza. Ha visto morire in Afghanistan diversi suoi colleghi, accusati di tradimento dai talebani. Lei stessa e la sua famiglia, rimasta in patria, sono stati minacciati di morte. Eppure la volontà di abbandonare Kabul era più forte di ogni cosa. Anche a costo di riparare in posto sperduto dove nulla pare esulare da una noiosa routine.
Secondo aspetto la miracolosa ibridazione tra surrealismo ed ironia che permea l’intero lungometraggio. Unico mezzo per rendere vivace una narrazione, in quanto a sommovimenti, assai prossima allo zero assoluto. Eppure, nell’immobilismo più totale, qualcosa si muove. E un appuntamento al buio, esperienza nuova per Donya, si rivelerà foriero di sorprese contrariamente alle aspettative.
Babak Jalali, da sempre attratto dalle migrazioni e dall’inserimento delle minoranze (recuperare il suo Land, 2018), in una cornice composta di “leggerezza di spessore” pone problemi in assoluto pregnanti. Per Jalali il trasferimento in uno sterminato paese, nella fattispecie gli Stati Uniti, equivale a smarrire la propria identità ben al di là della mansione lavorativa. Donya, nella sua nuova realtà, è come se non esistesse, sentendosi inutile e perciò depressa. La sfida torna ad essere sempre quella, immarcescibile dalla notte dei tempi: mettersi in gioco, reinventarsi. Anche e soprattutto attraverso le relazioni con il prossimo. Alla ricerca di quel sentimento magico la cui definizione al giorno d’oggi diviene persino improbabile pronunciare. E chissà se l’incontro con un giovane meccanico (Jeremy Allen White, il Carmen Borzatto della serie televisiva di culto The Bear), reo confesso di sopportare una vita di alienante solitudine, sarà destinata a condurre ad una svolta i loro percorsi. Come testimonia un finale aperto di grande poesia, altro punto a favore di Fremont.
Conquistare in souplesse l’empatia spettatoriale nei confronti di ogni personaggio del film era tutt’altro che impresa facile. Grande merito allora anche per una sceneggiatura – firmata dallo stesso regista con Carolina Cavalli – in grado di raccontare l’apparente nulla di una sperduta provincia in modo che possa sembrare il trampolino di lancio verso qualcosa di meraviglioso nella sua normalità.

Daniele De Angelis

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