L’eterna illusione
Certamente, Mi fanno male i capelli rappresenta un sentito omaggio a quella meravigliosa attrice che è stata Monica Vitti. Per estensione potremmo anche definirla un’opera metacinematografica, capace di esaltare la Settima Arte come luogo ideale dove allignano i ricordi di ogni cinefilo. Una sorta di pozzo culturale in cui abbeverarsi ogniqualvolta se ne abbia la necessità. Stiamo, ovviamente, semplificando oltremisura; poiché Roberta Torre, da cineasta sempre fuori dagli schemi, si “diverte” a mescolare le carte in tavola, realizzando un lungometraggio che definire labirintico non rende ancora alla perfezione l’idea.
Monica (Alba Rohrwacher) non ricorda affatto la vera Monica Vitti colta nella fase più o meno acuta della sua malattia. L’età non corrisponde, al pari di quella dell’innamoratissimo marito Edoardo (Filippo Timi), ben più anziano di Monica mentre l’ultimo compagno Roberto Russo è sensibilmente più giovane della Vitti. Nel gioco di specchi pressoché infinito tra realtà diegetica e finzione, con le immagini dei film di Monica Vitti che si alternano senza sosta, mescolandosi in qualche circostanza anche alla trama, ecco spuntare i simboli. Monica si percepisce Monica Vitti, cristallizzata in un’eterna giovinezza in cui però la sua memoria si sta progressivamente svuotando. Unico appiglio rimastole sono le immagini cinematografiche, siano essere fruite attraverso il mezzo televisivo o addirittura immaginate attraverso ricordi incontrollabili. E già rivedere la vera Monica Vitti ne La notte, L’eclisse, Deserto rosso (da cui proviene la celeberrima frase del titolo), Amore mio aiutami e Polvere di stelle – tra gli altri – rende la visione di Mi fanno male i capelli carica di pulsanti emozioni, senza dimenticare un surreale dialogo con Alberto Sordi. Ricordando ad ogni spettatore che si reca in una sala cinematografica cosa l’aver assistito ad un film possa diventare in un futuro molto prossimo: una scheggia di memoria in grado di rapportarci per sempre con quel momento vissuto. Un autentico tesoro nascosto tra le pieghe della mente. Ed è proprio a quello che Monica disperatamente si aggrappa nel tentativo di continuare ad essere se stessa.
Unico limite di un’operazione squisitamente psicologica – quasi tutto il film, a parte una digressione narrativa sui debiti di Edoardo, è raccontato dal punto di vista “malato” di Monica – nonché screziata di piacevole intellettualismo al pari di Tano da morire (1997), Sud Side Stori (2000) e Riccardo va all’inferno (2017) è quello di una messa in scena quasi obbligata già vista in altre occasioni. Con i vari simbolismi felliniani che appesantiscono talvolta lo scorrevole fluire delle immagini.
Un operazione – presentata nel Concorso Progressive Cinema alla diciottesima edizione della Festa del Cinema di Roma – comunque ambiziosa nel ripercorrere le tracce, come testimonia la sequenza iniziale, della variegata carriera di un attrice unica al mondo per talento e spontaneità. Incrociandole con ciò che l’essere umano non può assolutamente controllare, tipo l’insorgere di una malattia inevitabilmente neuro-degenerativa.
La vicenda personale assurge a messaggio universale.
Daniele De Angelis