C’era un teatro nel bosco
Per la seconda volta ci troviamo a fare i conti con un’opera firmata dal collettivo tuttofare formato da Riccardo Caruso, Roberto Tenace, Luigi Lombardi ed Elisabetta Falanga, e per la seconda volta ne veniamo conquistati e travolti allo stesso tempo, seppur per motivi diversi. Il primo incontro con il loro cinema fu meno di un anno fa, quando il nostro sguardo incrociò fortuitamente La dolce casa, di Elisabetta Falanga, con il quale la regista e il collettivo al suo seguito si aggiudicarono il Premio della Giuria nella sezione Italiana Corti alla 33esima edizione del Torino Film Festival. Si trattava di una bellissima contaminazione tra documentario e cinema sperimentale, capace di lavorare con straordinaria intensità sulla fisicità dei luoghi e l’immateriale della memoria e delle emozioni, in un flusso di parole e immagini che scorreva tra presente e passato.
Il flusso mnemonico, così come la contaminazione dei linguaggi e delle Arti, sono parte integrante del Dna drammaturgico e visivo della loro seconda creatura dal titolo dodici pagine, che approda sugli schermi ancora più prestigiosi della 73esima edizione della Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica di Venezia, all’interno della mini rassegna dedicata alla produzione breve nostrana voluta dalla Settimana Internazionale della Critica e battezzata SIC@SIC (Short Italian Cinema @ Settimana Internazionale della Critica).
Tutto accade in un luogo circoscritto: un teatro posizionato su un quadrato di terra invernale. Lo spazio del racconto rappresenta la memoria di Pinuccia: un flusso d’immagini continuo, dove gli spazi variano nel tempo dell’immaginazione mentale. Buchi scavati nella terra che si sostituiscono a stanze, trasformazioni improbabili, ruoli e personaggi mutevoli. In questa terra d’immaginazione s’inciampa facilmente, perdendosi come Pinuccia in un flusso che ha poco di concreto o logico.
Come ne La dolce casa, anche in dodici pagine, la linearità della narrazione viene meno a favore di una frammentazione non cronologica dei quadri che si susseguono sullo schermo. Lo short e la sua narrazione funzionano esattamente come la mente umana, ossia per associazione di idee, concetti, ricordi, emozioni e brevi frammenti visivi, che uno alla volta o tutti insieme vanno a trovare le rispettive collocazioni, acquistando alla fine una forma, una sostanza e ovviamente anche un senso, come i tasselli in un mosaico o in un puzzle. Settima Arte e teatro si fondono mescolandosi senza soluzione di continuità, dando vita a un rimbalzo di monologhi intersecati, corse a perdifiato tra i boschi e proiezioni oniriche. Davanti agli occhi dello spettatore di turno tutto si crea e tutto si distrugge nel giro di un attimo. Ed è questa la bellezza e la forza di un cortometraggio che fa della confezione estetica e della cifra stilistica le armi in più per scardinare le resistenze della retina, a cominciare dalla fotografia e dalle scenografie, ma soprattutto dell’uso della macchina da presa impegnata a produrre lunghi piani sequenza in steadycam, lente carrellate e dolly a piombo di grande eleganza, che denotano un notevole gusto per la composizione.
L’errore più grande che si possa fare davanti a opere come questa è quella di provare a ingabbiarla, incanalandola in un genere piuttosto che in un altro. dodici pagine è l’espressione libera e anarchica di un modo fare Arte e non solo cinema.
Francesco Del Grosso