Claustrofobica Corea
Che il cineasta coreano Kim Ki-duk sia particolarmente affezionato alla nostra Mostra del Cinema di Venezia, è cosa ormai risaputa. Se, infatti, nel 2004 era stato premiato con il Leone d’Argento per Ferro 3, ben otto anni più tardi, nel 2012, ha finalmente ottenuto il tanto ambito Leone d’Oro per il suo Pietà. E, dopo le proiezioni in anteprima di lungometraggi come Moebius (2013) e One on One (2014) eccolo apparire al Lido nuovamente nel 2016 con Il prigioniero coreano, dolente e surreale vicenda di un uomo che, a causa della scissione tra Corea del Nord e Corea del Sud, si trova in una situazione al di là di ogni possibile immaginazione.
È questa la storia di Nam Chul-woo, un pescatore tutto dedito al lavoro e alla famiglia, che vive in un piccolo villaggio della Corea del Nord. Nel momento in cui una delle sue reti da pesca si impiglierà nel motore della sua barca, provocando la rottura di quest’ultima e facendolo oltrepassare involontariamente la linea di confine tra il Nord e il Sud della Corea, l’uomo finirà per essere interrogato e spesso anche torturato per giorni dalle autorità sudcoreane, le quali sospettano che lui sia una spia. Allo stesso modo, gli sarà difficile tornare il patria, proprio a causa della forte dittatura lì presente.
Se, dunque, nel 2012, con Pietà ci era venuto in mente, in determinati momenti, I giorni contati di Elio Petri, con Il prigioniero coreano non possiamo non pensare a Una pura formalità di Giuseppe Tornatore. E un autore come Kim Ki-duk, si sa, è da sempre stato affascinato dalla cultura europea (non dimentichiamo che per un periodo ha anche studiato pittura a Parigi), al punto da non renderci del tutto improbabile l’ipotesi che il grande cinema del nostro Bel Paese abbia in qualche modo influenzato l’immaginario del celebre cineasta coreano. Si badi bene: coreano e non sudcoreano, come verrebbe naturale affermare. Lo stesso Kim Ki-duk, infatti, ha più volte ammesso di sentirsi coreano e che, di conseguenza, questa dolorosa scissione tra Corea del Nord e Corea del Sud è per lui (così come per molti altri) una ferita che non smetterà mai di sanguinare.
Tornando, in un certo qual modo, al suo cinema del passato (e riprendendosi da uno scivolone tremendo come è stato One on One), il nostro autore ha qui – finalmente senza filtri o edulcorazione alcuna – messo in scena la dittatura nell’accezione peggiore e più assurda – ma anche fortemente veritiera – che si possa mai immaginare. Claustrofobico, paradossale, ma anche crudo quanto basta, Il prigioniero coreano, pur non vantando un’estetica curata e ricercata come quella di lungometraggi come Primavera, Estate, Autunno, Inverno…e ancora Primavera (2003) o L’arco (2005), riesce a stabilire, in qualche modo, il grande ritorno di un cineasta che fin dai suoi primi lavori è riuscito a farsi notare all’interno del variegato panorama cinematografico mondiale. Ritorno, però (e questo va riconosciuto), che immediatamente dopo la bella sorpresa di Il prigioniero coreano ha visto un ulteriore calo con Human, Space, Time and Human, presentato alla 68° edizione della Berlinale. Ma questa è un’altra storia.
La cosa importante, in questi casi, è sapere che il Kim Ki-duk che tutti conosciamo e amiamo è ancora in grado di sorprenderci, che è perfettamente in grado di fotografare la situazione politica attuale e di raccontarci la Storia del giorni nostri con il suo tocco del tutto personale e, in un certo senso, inimitabile. Su quale piega prenderà, da questo punto in avanti, la sua carriera, non possiamo affatto pronunciarci. Di certo, però, visti gli straordinari ritmi produttivi che da sempre hanno caratterizzato il suo lavoro, possiamo ben immaginare che di sorprese ne avremo ancora tante e tante.
Marina Pavido