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Caffè

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VOTO: 6

Ma che voglia di caffè! 

Tre storie. Tre parti del mondo assai lontane tra loro. Tre, anzi – se vogliamo – quattro culture diverse. Ma un unico comun denominatore, in un mondo fatto di incomprensioni, difficoltà economiche ed odio razziale. È vero, ad una prima, superficiale lettura potremmo subito pensare a Babel, il fortunato lungometraggio diretto nel (non troppo) lontano 2006 da Alejandro González Iñarritu. E invece no. Stavolta ci troviamo in Italia, nel 2016. Ed abbiamo di fronte a noi un film nato da una co-produzione italo-cinese-belga. Si tratta, appunto, di Caffè, diretto dal nostro connazionale Cristiano Bortone e presentato in anteprima alla 73° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, nella sezione Giornate degli Autori.
Belgio. Hamed è fuggito dall’Iraq ed ha aperto un’attività insieme alla sua famiglia. Egli è un padre premuroso ed affettuoso. Un giorno, però, qualcuno rapina il suo negozio e l’uomo riesce a rintracciare il ladro – un giovane ragazzo padre disoccupato –al fine di farsi ridare almeno una preziosa macchina del caffè a cui è molto legato. Le cose, però, avranno un esito inaspettato.
Italia. Renzo è un giovane sommelier del caffè appena trasferitosi a Trieste con la sua ragazza, la quale aspetta un bambino. Il ragazzo, però, non riuscendo a trovare lavoro, verrà coinvolto da un gruppo di conoscenti nell’organizzazione di una rapina.
Cina. Fei è il giovane manager di un’industria chimica, il quale è in procinto di sposare la figlia del suo capo. Un giorno viene mandato nello Yunnan – la sua terra d’origine – al fine di occuparsi di un grave incidente in alcuni stabilimenti del posto. Qui, grazie anche ad una giovane pittrice solita dipingere i suoi quadri con del caffè, il ragazzo riscoprirà i veri valori della vita.
Senza dubbio, dal punto di vista della scrittura, l’operazione effettuata da Bortone è parecchio interessante. Soprattutto se si pensa ad una società come quella odierna, sempre più xenofoba ed individualista, all’interno della quale ognuno sembra pensare solo a sé stesso e a ciò che lo riguarda in prima persona. E, in questo caso, il caffè – al giorno d’oggi uno dei prodotti più diffusi del mondo – fa da perfetto McGuffin, nonché da indovinato collante all’interno delle tre storie. Storie, queste, che, nonostante tutto, non si incrociano mai. Ma che hanno, appunto, molto più in comune di quanto si possa pensare. Eppure, questo lungometraggio di Bortone, qualche problema ce l’ha. Restando nell’ambito della scrittura, infatti, vi sono parecchi elementi raccontati in modo sbrigativo, per non dire quasi raffazzonato. Basti pensare, ad esempio, al momento in cui Hamed scopre che il suo negozio sta per essere rapinato guardando le immagini di una diretta televisiva (e qui potrebbe scappare anche qualche risatina involontaria). Oppure, per quanto riguarda il personaggio della pittrice, si sarebbe potuto scegliere una malattia più credibile, o quantomeno esistente, invece di un “problema al sangue di cui neanche i medici sanno nulla”.
Detto questo, il fattore che meno convince è proprio la regia. Dopo una suggestiva scena iniziale in cui vediamo inquadrata una tazzina di caffè con la voce fuoricampo del figlioletto di Hamed intento a leggerne i fondi, tutto il resto del film non riesce a reggere la stessa poesia e la stessa potenza visiva. Saranno il troppo spazio dedicato ai dialoghi a scapito quasi delle immagini, sarà l’universale difficoltà nello scrivere film corali (il grande Robert Altman è stato, in questo settore, una vera e propria mosca bianca), sarà, appunto il troppo “detto” ed il troppo poco “non detto”, ma Caffè ha, purtroppo, tutto l’aspetto di una fiction televisiva. Interessanti le scene in cui viene operato un montaggio alternato (forse eccessivamente usato, però), ad esempio, ma la musica in sottofondo non sempre si rivela appropriata. Al contrario, soprattutto per quanto riguarda la scena del pestaggio di Hamed a casa del ladro, riesce quasi a disturbare lo spettatore.
Peccato. Soprattutto perché – malgrado il tema dell’universalità sia già stato sfruttato – l’idea di unire varie storie e varie culture grazie al caffè è senza dubbio originale, accattivante ed indovinata. Se non altro perché ci regala anche quel tocco di speranza e di ottimismo di cui tutti, in fondo, abbiamo bisogno. Almeno quanto abbiamo bisogno di caffè!

Marina Pavido

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