«Una favola nera»
Non mi uccidere, liberamente ispirato al romanzo omonimo di Chiara Palazzolo, scrittrice italiana scomparsa nel 2012, è l’opera seconda del giovane regista dalle idee molto chiare – il suo esordio, I figli della notte, era stato presentato, nel 2016, al Torino Film Festival.
La conferenza stampa è stata l’occasione per approfondire la genesi del nuovo lungometraggio, le tematiche e il modo in cui regista, autori e cast hanno affrontato un mix di generi.
Non mi uccidere: sinossi ufficiale
Mirta (Alice Pagani) ama Robin (Rocco Fasano) alla follia, lui le promette che sarà amore eterno. In una cava abbandonata, la voglia di trasgredire costa la vita a entrambi. La ragazza però si risveglia e non può che sperare che Robin faccia lo stesso, proprio come le aveva promesso. Ma niente è come prima. Mirta capisce di essersi trasformata in una creatura che per sopravvivere si deve nutrire di carne umana. Ha paura. Braccata da uomini misteriosi, combatte alla disperata ricerca del suo Robin.
Non mi uccidere: le dichiarazioni dei protagonisti
D: Questo è un film insolito e nuovo, sicuramente coraggioso per il panorama italiano. Si può definire un thriller romantico?
Andrea De Sica: «È una storia d’amore in cui si verifica un innamoramento dai contorni misteriosi, quelli del mondo della notte, qualcosa che ci fa trascendere le nostre sicurezze. La protagonista rimette in discussione la sua vita. Potremmo anche definirlo una favola nera».
D: Alice, nel tuo personaggio c’è un dualismo tra fragilità e forza.
Alice Pagani: «Lei parte con caratteristiche di fragilità e dolcezza, è protetta dalla sfera familiare, mentre con Robin scopre l’amore, il quale, al contempo, la mette alla prova. C’è un abuso che la costringe a reagire. L’esperienza che vive saggia la sua purezza: lotta per diventare adulta e sconfiggere i suoi mostri. Come tutti gli adolescenti non riesce a partecipare alla realtà, non si sente accettata».
D: Rocco, il percorso del tuo personaggio, invece, è diverso…
Rocco Fasano: «Sì, lui parte da una profonda delusione nei confronti del mondo: ha perso cose importanti della propria vita e questo lo porta a buttarsi in questo amore totalizzante, che brucia entrambi nell’anima e nel corpo».
D: Silvia, cosa sono nel film i ‘sopramorti’?
Silvia Calderoni: «Sono quei ragazzi morti di morte violenta che hanno lasciato in vita qualcosa di irrisolto e questa è la ragione che li porta a tornare».
D: Come hai gestito la compresenza di parti più fisiche, d’azione, con altre più narrative?
S. Calderoni: «In realtà le parti action erano ben miscelate con le parti di narrazione: non c’era una divisione netta anche perché grazie alle scene d’azione prosegue la narrazione».
D: Sergio e Anita, i vostri personaggi reagiscono in modo molto diverso a ciò che accade alla loro figlia…
Anita Caprioli: «Ci sono i due aspetti della genitorialità: la mia parte di madre è quella più istintiva. Lei sente la figlia e ne percepisce la presenza, ma nessuno le dà ascolto. Questo continuare a vederla e sentirla viene percepito dagli altri come una sorta di follia».
Sergio Albelli: «Quella del mio personaggio, invece, è una reazione rabbiosa, di incomprensione per quello che è accaduto e di incapacità di metabolizzare il lutto. Lui è immerso nel suo tran tran di vita ‘normale’ a cui cade addosso questo disastro che fa esplodere tutto. È impreparato. C’è dapprima una rabbia e poi la scoperta di qualcosa che non potrà comprendere».
D: Giacomo Ferrara, chi è Ago?
G. Ferrara: «È uno dei più cari amici di Robin, che teoricamente fa parte del gruppo che dev’essere evitato, ma in realtà ha l’anima molto fragile. Era un personaggio privo di sogni, senza speranza. È stato difficile interpretarlo per me dato che, a differenza sua, sono un grande sognatore. Per lui ritrovare Mirta ha significato qualcosa».
D: Gianni Romoli, quanto è stato stimolante adattare un libro del genere? Che tipo di processo hai adottato?
G. Romoli: «Nel 2005 avevo letto il romanzo, contattai Chiara Palazzolo e le chiesi i diritti per il film; da tempo non scrivevo una storia horror e volevo misurarmi col genere. Ci siamo messi a scambiare opinioni sul libro e su come potesse essere portato al cinema. Lei non volle partecipare alla scrittura, ma capì che la riduzione significava cambiare modalità di linguaggio e interpretazione. Era consapevole che avremmo fatto un film meno filosofico del romanzo, ma per lei era fondamentale che restasse la metafora del passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Per un po’ di tempo non è stato possibile concretizzare perché il mercato non credeva nei film horror e, complessivamente, in quelli di genere. Abbandonammo l’idea, che poi nel tempo è stata ripresa da Andrea De Sica: a lui piaceva la sceneggiatura, e dopo il successo de Lo chiamavano Jeeg Robot i produttori hanno deciso di tornare a investire sul cinema di genere. A quel punto abbiamo ripreso in mano il tutto, lavorandoci in modo diverso… avevo scritto e riscritto la storia in tanti modi diversi per cui avevo bisogno di un occhio nuovo e sia Andrea che il Collettivo GRAMS me l’hanno fornito».
D: Andrea, tu sei anche autore della colonna sonora. Musica e regia vanno di pari passo?
A. De Sica: «Per me la musica è fondamentale perché si può fare in solitudine a differenza del cinema che è un lavoro collettivo. Scrivo pensando un film già in termini musicali, mi piace la dimensione extraverbale delle immagini e dei suoni che vanno insieme. Il mio linguaggio parte da lì. Comporre le musiche prima di girare è stato molto utile perché abbiamo trovato da subito il tono di questa storia. Le musiche che ho composto con Andrea Farri ci hanno accompagnate fin dall’inizio. Adoro girare con la musica: se potessi, in futuro, farei un film con solo musica e niente dialoghi».
D: Alice e Rocco, come vi siete trovati a interagire con l’attenzione di Andrea verso la musica?
A. Pagani: «Andrea spesso mi ha preso in giro affermando che quando era prevista una scena senza parole, io entravo in modalità film muto. Il mio punto debole e, parallelamente, anche di forza, è essere perfezionista. La musica per me è un punto fondamentale per la preparazione di un ruolo. Abbiamo lavorato più attraverso la musica che con le parole».
R. Fasano: «Per me la musica è stata di supporto: ascoltare i pezzi ha aiutato a calarci nell’atmosfera e nel tono del film. Sono contento di questo approccio».
D: Come avete gestito i riferimenti a Twilight?
A. De Sica: «In realtà non ci siamo mai dati Twilight come reference; già nel romanzo, che è precedente, esisteva una storia d’amore che era centrale nella narrazione. Secondo me Twilight è un melò travestito da horror. Anche in Non mi uccidere siamo nel melò, ma il lungometraggio affonda senza paura in una dimensione più drammatica e violenta».
D: Dal punto di vista della donna emerge un tasto molto attuale: l’abbandono di una storia d’amore etero per approdare a una sorta di sorellanza.
A. De Sica: «È un film con una protagonista femminile e già questo è raro; troppe volte si vedono film con l’uomo al primo posto, mentre qui il mondo femminile è ben separato da quello maschile. Alice si è presa la responsabilità, il carico emotivo del ruolo; per lei è stata un’enorme prova di sopravvivenza. I temi della sorellanza sono temi collegati al legame tra le donne».
D: Quale immagine di donna ne viene fuori?
A. Pagani: «Ritengo che emerga una donna che non ha vergogna di provare paura né di diventare carnefice per difendersi. Parte da vittima, ma alla fine non lo è più. Sa difendersi, accetta le proprie fragilità e le difende».
D: Andrea hai iniziato il tuo percorso come autore. Nel cimentarsi col genere si rischia di perdere qualcosa?
A. De Sica: «Mi sento sempre autore quando realizzo un lavoro, cercando il più possibile di restare legato a qualcosa di personale. All’estero vedo molto cinema d’autore che dialoga coi generi. Questa distinzione, in realtà, esiste soprattutto in Italia. Siamo abituati all’autorialità in termini di realismo, dramma, dialetto, ecc. Provo a superare questa divisione. Sono rimasto lo stesso regista di cinque anni fa».
D: Andrea, al tuo terzo lavoro (tenendo conto della regia per la serie Baby, targata Netflix), si conferma una certa fascinazione per il mondo giovanile.
A. De Sica: «Considero questo film un po’ come il terzo capitolo di una saga. Si può riscontrare un filo conduttore tra i miei lavori. In questo caso, rispetto ai precedenti, c’è più fisicità. Ho lo studio all’interno di un liceo, nutro un affetto particolare nei confronti del mondo degli adolescenti e io stesso, per certi versi, mi sento ancora tale».
D: Quanto ha contato proprio l’aspetto ‘adolescenziale’? Quanto servono queste opere a chi il comimg of age lo sta facendo adesso?
R. Fasano: «Ho un fratello diciottenne quindi ho un feedback diretto. Quello che si racconta nel film, ossia la rabbia adolescenziale, l’incomprensione che loro provano nei confronti dei genitori sono tasti molto stringenti ed è importante parlarne. Credo che sia importante parlarne per far sentire i ragazzi meno soli».
A. Pagani: «Noi giovani cerchiamo innanzitutto la verità, vogliamo credere che non siamo da soli a provare delle cose che non ci piacciono. Essere giovani significa cambiare, conoscersi e scoprirsi. Ognuno ha messo i propri valori nel personaggio; per noi ha significato dire ciò che pensiamo».
D: Andrea rimanendo sugli argomenti chiave, come hai lavorato sul tema della paura?
A. De Sica: «È un filo conduttore di tutti i miei lavori. Mi piace la dimensione della fascinazione del male. C’è un’ambiguità che mi auguro venga fuori dal mix di immagini e suoni che abbiano creato e non solo dalle parole. Sono attratto dagli aspetti notturni della nostra mente; spero che il film inquieti e crei insieme un traino sul romanticismo».
D: Andrea, presentando I figli della notte avevi affermato: «l’intento è quello stimolare e colpire forte come un pugno nello stomaco per scuotere il mondo». Quanto questo nuovo film può essere un pugno nello stomaco e scuotere dal disincanto presente nei giovani, tanto più in questo periodo?
A. De Sica: «Sicuramente ci sono due sentimenti dominanti: una drammaticità forte accompagnata da tanta amarezza, ma anche un grande attaccamento alla vita. Mirta vive in modo verginale questi sentimenti che la sconvolgono e anche la scoperta di chi sia diventata in questa resurrezione. Un cazzotto nello stomaco è proprio questo coming of age che lei fa, che mi auguro di aver raccontato bene insieme a questi bravi interpreti».
D: Al cast: cosa avete scoperto di voi stessi sia come artisti che individuale lavorando a questo film?
S. Calderoni: «Sicuramente ho scoperto una grande ‘sorellanza’ con tutte e tutti all’interno del set. C’è stato, quindi, uno spostamento sostanziale ed è qualcosa che è affiorata nelle temperature di quelle giornate. Una cosa che ho imparato è che il bianco e il nero sono sempre mischiati: qui erano spesso presenti all’interno dello stesso personaggio e, infatti, ho cercato di non estremizzare in nessuna direzione ».
G. Ferrara: « Ho scoperto di non rinunciare ai miei sogni. Quello che mi porto da questa esperienza è il rapporto umano che si è creato e il lavoro con Andrea ».
A. Pagani: «Mi porto la consapevolezza che non si finisce mai di scoprire cos’è la recitazione: in questo lavoro sono riuscita a mettere insieme voce e corpo, ma anche amicizia e lavoro. Questo set ha avuto tanti momenti di difficoltà, ma ci siamo aiutati tantissimo. È bello potersi fidare dei propri colleghi».
R. Fasano: «Concordo. Ciò che è rimasto è innanzitutto un bellissimo rapporto umano e professionale perché non capita sempre. Questo è un lavoro che ho affrontato per la prima volta molto ‘di pancia’ sia perché in certe situazioni non c’era un’altra scelta e poi avevo anche compreso che fosse l’approccio più giusto».
D: Data l’importanza nell’economia della storia, qual è stato il lavoro compiuto sulle location?
A. De Sica: «Il territorio è molto presente perché il film è stato scritto pensando al rapporto tra passato e presente; questo laddove il passato è un luogo idilliaco e naturale, che abbiamo ricostruito soprattutto nei dintorni di Bolzano. Le scene sulla spensierata fanciullezza e quelle familiari erano raccontate in termini romantici e naturalistici. La storia di Mirta da morta, invece, ha come teatro un paesaggio più duro e urbano, ma l’abbiamo girata nella stessa parte di Alto Adige, rappresentato ovviamente in modo diverso. Non è però l’Alto Adige da Hansel e Gretel che siamo abituati a immaginarci, ma con una sua visione più moderna» (Il film è stato sostenuto da IDM Film Fund & Commission, nda).
D: Andrea, cosa ti rende più orgoglioso?
A. De Sica: «Sono soddisfatto perché credo che questo lungometraggio esprima qualcosa di nuovo; spero di averlo fatto coi toni dolci e terribili degli anni straordinari della nostra adolescenza».
LA PRESENZA DI UN RUOLO AMBIGUO
Ci sembra doveroso aggiungere una nota di merito, oltre che una riflessione sulla parte interpretata da Fabrizio Ferracane, il quale ha scelto di cimentarsi in un personaggio differente da quelli incarnati fino ad ora, giocando con l’ambiguità del ruolo già insita nella scrittura. Da un lato non possiamo addentrarci troppo per non spoilerare; vi basti sapere che ha una parte chiave, che si svelerà col dipanarsi della storia, arrivando anche a muovere le fila del plot.
«Io ho immaginato un non-horror mentre scrivevo. Cioè, impostate le premesse ‘soprannaturali’, il resto è assolutamente realistico. E realistici sono i sentimenti. Quello che mi sono chiesta è stato: che cosa si prova davvero a tornare sulla terra da morti? Non mi interessava per niente una risposta ‘di genere’, ma una risposta esistenziale. Ho lasciato che questa ipotesi si incarnasse nei personaggi, e loro mi hanno fornito delle risposte. Senso di onnipotenza, per alcuni, persino senso di responsabilità per altri, ma anche infinita angoscia. E tra questi Mirta-Luna. Questa ragazza angosciata è quanto di più realistico possa esistere. Non riesco neanche a considerarla un personaggio. Mirta è un grido di aiuto». Ci tenevamo a concludere con le parole dell’autrice.
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Maria Lucia Tangorra