Il sentimento tragico della ‛ndràngheta
Non è mai facile trarre un film da un romanzo, il terreno diventa ancora più minato nel momento in cui si tratta di trattare la ‛ndràngheta (passateci il voluto gioco di parole). Anime nere di Francesco Munzi si addentra in questo campo pieno di trappole, ma riesce ad evitarle a partire dall’opportuna scelta di star alla larga dai cliché legati al genere. Tra i tre italiani presentati in Concorso alla 71^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, l’ultima opera del regista romano prende spunto dal romanzo di Gioacchino Criaco per distaccarsi e cercare una propria strada. «Nel romanzo siamo negli anni ottanta e novanta, nel film ai giorni nostri. I protagonisti lì hanno vent’anni, nel film quaranta e più; nell’opera letteraria sono amici, nella sceneggiatura diventano fratelli: Luigi, Rocco e il più anziano Luciano che ha un figlio di vent’anni, Leo (interpretato da Giuseppe Fumo), quarto effettivo protagonista».
Con questo salto temporale e questa distanza dal testo originario, Munzi e la sua squadra di sceneggiatori (Fabrizio Ruggirello, Maurizio Braucci e la collaborazione dell’autore del libro) hanno potuto mettere basi solide per un lungometraggio che scava nelle vite di “criminali”, facendo emergere tutta la loro umanità dominata spesso da sfumature grigie e nere. La chiave della buona riuscita sta proprio in questo approccio che prende corpo grazie a un ottimo cast di attori professionisti e non. Tre fratelli: Luigi (Marco Leonardi), Rocco (Peppino Mazzotta) e Luciano (Fabrizio Ferracane) sono uniti e al contempo divisi dal legame di sangue, che si fa ora macchia indelebile per tutta la famiglia, ora un germe che cova in ognuno dei componenti, ora una “cuccia” dove rifugiarsi. Ciascuno dei tre uomini si differenzia l’uno dall’altro facendo emergere un aspetto su tutti, ma senza che questo schiacci il personaggio, ricco di sottotracce. «C’avete quarantanni e ancora fate ste’ stronzate» afferma Rocco rivolgendosi a Luigi – in quest’ultimo predominano il lato più infantile e la brama di essere tra i capi della camorra. Luciano ci introduce, invece, nella dimensione più arcaica, vive isolato e per scelta continua a fare il pastore. Rocco è colui che cerca di mantenere il controllo della situazione e mediare, vive a Milano, con una moglie (Barbora Bobulova) che si sente un pesce fuor d’acqua rispetto a certe logiche criminali e famigliari, anche nelle occasioni più di “unione” quale potrebbe essere un funerale.
Ambientato ad Africo, nell’Aspromonte, Anime nere assume quest’anima anche grazie al personaggio del paesaggio; con mano sicura Munzi ci pone di fronte a un ambiente in cui il contrasto e la contraddizione sembrano di casa. Da un lato il mare bellissimo, dall’altro una montagna irta, pronta a isolare e inghiottire qualsiasi crimine perché la tragedia può arrivare quando meno si aspetta. La macchina da presa non ci consegna dei meri ritratti ambientali, ma sembra andare a scovare negli anfratti come se fosse guidata da un approccio documentaristico, il tutto nell’ottica di un lavoro realistico, che quasi “sconfessasse” gli stilemi del genere così come ci son stati propinati dal cinema americano.
Passando da una generazione all’altra, la struttura narrativa ci suggerisce come le cosiddette colpe dei padri (anche inconsapevoli) ricadano sui figli; ed è questo il caso di Leo, un ragazzo che rappresenta l’innocenza perduta e forse mai avuta – sarà proprio un suo atto a far scattare la scintilla. Ancestrale e moderno si uniscono così in un vortice che fa vomitare l’anima nera celata in ognuno, sono personaggi che portano con sé il carico da novanta di essere delle persone (e non è una contraddizione sottolinearlo). Nella pellicola di Munzi la violenza non è mitizzata, accade come purtroppo si verifica nella realtà (a bruciapelo o meditata), in particolare, in determinati luoghi e circostanze. A restituire ancor più una sensazione di “primitivo” ci pensano il dialetto calabrese, le leggende e i riti pagani come quello di far sciogliere la polvere del santo e berla.
Nella seconda parte la struttura drammaturgica acquista ancora più ritmo travolgendo lo spettatore nella guerra della famiglia e che ogni personaggio (chi più, chi meno) ha con se stesso, più che tra clan.
In linea col titolo, la fotografia di Vladan Radovic mantiene per quasi tutto il film i toni cupi, marcando la contrapposizione tra gli interni e l’ambiente, anche le riprese in esterni di alcune scene mantengono questo mood, contribuendo a farci calare nell’inferno più sopito che non esplicitamente dichiarato. È come se ci fosse un lutto interiore, mai metabolizzato e l’unico modo per farlo è attraversare la spirale, ognuno a proprio modo, compreso il nucleo delle donne. «Sembrano imperturbabili e, invece, sono molto importanti, la loro fissità emotiva porta all’ineluttabilità del destino» (Anna Ferruzzo). Tutti i ruoli, anche il più apparentemente marginale, tornano al pettine e costruiscono il puzzle di tante anime fatte di carne e ossa, in cerca di loro stesse e in cui l’identità della terra è tutta da scoprire.
Neri gli occhi, neri gli abiti, nero il cielo che tuona, nera l’anima piena di rabbia e di dolore…
Maria Lucia Tangorra